Cinema / Intervista

“Physis”, la lenta e inesorabile trasformazione della natura

Cecilia Bozza Wolf racconta la nuova pellicola, presentata al Film Festival venerdì 3 maggio: le suggestioni di Arte Sella rivivono nel racconto filmico della genesi e della realizzazione di un'installazione dell'artista Arcangelo Sassolino

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di Fabio De Santi

TRENTO. Un viaggio incredibile iniziato tre anni fa ad Arte Sella, che racconta la genesi e la realizzazione di un'installazione, che parla del tempo e della lenta e inesorabile trasformazione della natura.

Sono queste le forme di “Physis”, presentato venerdì 3 maggio, al multisala Modena, alle 18.45, in anteprima al Trento Film Festival, il nuovo film documentario di Cecilia Bozza Wolf (foto) legato all’opera dell'artista Arcangelo Sassolino prodotto da Arte Sella, con il contributo di Pedretti Graniti.

Cecilia Bozza Wolf, quali le radici di questo progetto che l’ha portata ad Arte Sella?

“Le radici che mi collegano ad Arte Sella sono piuttosto profonde. Risalgono  al 2016, anno in cui ho iniziato a collaborare con loro come videomaker ufficiale del museo, ruolo che ricopro ancora oggi insieme ad Alex Zancanella con la nostra VergotFilms. Questo progetto nasce dall'iniziativa del presidente Giacomo Bianchi che nella primavera 2020 ci ha espresso la volontà di documentare le varie fasi di realizzazione dell’opera che Arcangelo Sassolino avrebbe cominciato a realizzare di lì a poco per il parco di Arte Sella”.

Quando sono iniziate le riprese?

“Nel settembre 2020 abbiamo iniziato le riprese in Val Genova seguendo il lavoro in cava degli uomini di Pedretti Graniti durante l’estrazione dei due grandi massi che sarebbero stati sostanza dell’opera di Sassolino. Non sapevamo ancora cosa avremmo fatto di quel girato, non c’era ancora l’idea precisa di farne un film, ma c’era sicuramente coscienza di essere in un momento di svolta importante per Arte Sella, nel quale il concetto di "arte nella natura" che ha attraversato la storia del museo si stava espandendo. Andava quindi indagato attraverso uno sguardo che tenesse conto di una nuova complessità nella relazione tra uomo e natura, relazione che cresce di giorno in giorno, arrivando a dialogare sempre più anche con scienza e tecnologia. L'opera di Arcangelo Sassolino rappresentava quindi una sintesi perfetta di questo percorso e un’occasione unica per narrarlo”.

Come si è approcciata a questo lavoro?

“A essere del tutto onesta in maniera molto spontanea e in un certo senso quasi istintiva. La collaborazione di anni con Arte Sella, la fiducia e l'amicizia che si è creata con lo staff ci ha permesso di agire liberamente, senza troppi preconcetti alla base e in costante simbiosi, confronto e scambio di spunti. Inizialmente si è trattato semplicemente di seguire il processo di realizzazione di un’opera, ben lontano dall’immaginario più diffuso dell’artista che da solo crea materialmente il suo lavoro dal principio alla fine. Quella di Arcangelo Sassolino è invece un’opera dove sono state coinvolte varie figure professionali altamente specializzate in ambiti molto diversi”-

Come ha reso in immagini l’idea di Sassolino di coniugare la precisione della meccanica con l’imprevedibilità della materia e degli agenti atmosferici?

“Cercando di restituire due dimensioni opposte, un po’ come l’opera doveva conciliare sistemi di misura quasi contrastanti: quello macro del granito e quello micro della meccanica. Così abbiamo tentato di fare noi alternando una camera a spalla sempre addosso ai protagonisti in azione, alla ricerca del dettaglio, di piccoli gesti, di sguardi che ne restituissero la tensione, la concentrazione, a volte il sollievo o la soddisfazione e che voleva dare la sensazione di essere lì con loro. La confidenza ha portato anche a interazioni dirette con la macchina da presa e al contempo inquadrature amplissime allo scopo di mostrare il lavoro imponente e non privo di ostacoli che si stava svolgendo o i luoghi all’interno del quale Physis stava prendendo forma, spostandosi in varie locations, fino a trovare a casa ad Arte Sella”.

E questo titolo “Physis”?

“Il film ha semplicemente preso in prestito il titolo che lui ha scelto per la sua opera e ci sembrava giusto fosse così, trattandosi del racconto della sua genesi e del rapporto con chi l’ha progettata, creata e pensata, chi le ha dato vita e movimento, chi oggi la ospita e se ne prende cura. Il motore della narrazione in fondo è stata proprio lei: Physis è un concetto che ci arriva dagli albori della filosofia quando si cominciò a indagare la Natura come materia vivente. Le sfumature di significato attribuite nel corso del tempo a questa parola sono state varie pur mantenendo una matrice comune, ovvero la Natura intesa come l’insieme delle cose viventi animate da energia vitale, ma anche come energia che stimola l'evoluzione, che presiede i mutamenti, oppure che guida la crescita e la ricerca di nuovi equilibri”.

Qual è la maggiore difficoltà che ha incontrato in questo contesto?

“Dato che Physis riflette sul concetto di tempo, il nostro primo ostacolo, ma anche stimolo, è stato proprio il tempo, sia dal punto di vista meteorologico che da quello delle durate, degli intervalli fra una giornata di riprese e l’altra e in prima battuta fra le varie fasi di lavorazione dell’opera. Era impossibile calendarizzare con precisione, sapere con certezza cosa sarebbe successo e quando, quanto tempo sarebbe durata una certa fase. E’ stato un modo di procedere intermittente, con il “pronti a girare” talvolta confermato il giorno prima o il giorno stesso dopo mesi di stop.  La lavorazione del film è durata più di due anni e si è svolta in luoghi diversi (dalla Val Genova alla Val di Sella fino a Vicenza) e ogni luogo presentava complessità logistiche, narrative e visive totalmente diverse, abbiamo costantemente giocato con l’inatteso e non è sempre stato semplice dato che per il novanta per cento delle riprese la troupe era formata solo da me con la camera in spalla e da Alex Zancanella che si destreggiava fra le riprese aeree e il suono in presa diretta. Bisogna ammettere però che è stato tutto molto “action” e dunque anche divertente. Come piace ad Arcangelo, c’erano tensione costante e rischio di fallire sempre dietro l’angolo, ma l’entusiasmo di tutti era palpabile. Ci si è svegliati all’alba per andare in cava, tenendosi in equilibrio con la macchina da presa nel fango o in cima a un blocco di granito o sotto l’acqua con l’attrezzatura, fra immensi macchinari, viaggi in camion o sul cassone di un pickup,  cercando di essere nel posto giusto al momento giusto quando succedevano cose irripetibili come l'esplosione del blocco di granito in cava, o la prima messa in moto dell’opera e a fare tutto questo ci hanno aiutato molto le persone di cui seguivamo il lavoro”.

Quali le suggestioni che ha colto in questo museo all’aperto davvero unico in Val di Sella?

“Ho trascorso l’infanzia in bassa Valsugana, poco distante dalla Valle di Sella. Arte Sella ha circa la mia età, ci andavo sin da bambina e man mano che il tempo passava, anche se mi allontanavo per dei periodi, la vedevo crescere, evolvere e trasformarsi. E’ una realtà a cui sono molto affezionata e a cui sento in un certo senso di appartenere.  Con Rosa Zambelli (responsabile della comunicazione di Arte Sella) e Alex Zancanella ci occupiamo di raccontarla all’esterno e la sfida costante dopo quasi otto anni è trovare sempre occhi nuovi con cui guardarla, cercare punti di vista inediti o inaspettati, adeguarsi ai suoi mutamenti…penso ad esempio alla grande ferita lasciata da Vaia o dal bostrico,  oppure all’arrivo dell’architettura a Villa Strobele o più in generale al susseguirsi di opere e artisti, all’alternarsi delle stagioni. Quasi inspiegabilmente, nonostante il parco ci sia ormai familiare e lo si conosca anche negli scorci più nascosti,  Arte Sella riesce sempre a stupirci, uno stupore quasi fanciullesco, quando ci si accorge di quanto può essere meravigliosa una certa opera vista attraverso gli aghi di un pino, o di quanto possa essere affascinante una goccia di pioggia lasciata su di essa da un temporale”.

Lo scorso anno aveva presentato il suo film “Rispet” al Trento Film Festival, ora questa sua nuova opera: come vive il suo rapporto con questa prestigiosa kermesse?

“È sempre un po’ come la prima volta, quando nel 2016 ho presentato “Vergot”: una grande emozione, una piccola stretta allo stomaco… ti dicono che con il tempo passa ma non è vero. Ci si trasforma, si fanno esperienze, ma la sensazione è sempre la stessa, ancora di più quando si “gioca in casa”. In questi anni poi ho avuto modo di conoscere varie persone dello staff del Trento Film Festival e devo dire che oltre alla grandissima professionalità nei vari reparti e all’organizzazione impeccabile, emergono un entusiasmo e una disponibilità davvero genuini, non scontati e di cui bisogna andare orgogliosi… non è sempre così”.

Ci può anticipare qualcosa sul suo prossimo progetto cinematografico o è troppo presto?

“Il prossimo progetto potrebbe essere un film a soggetto intitolato Confusia e prodotto da Albolina Film. Siamo ancora in fase di sviluppo e scrittura della sceneggiatura con l’inseparabile Raffaele Pizzatti Sertorelli. La strada è ancora lunga e come sempre capita per i film, molto imprevedibile.  Quello che per ora posso dire è che si tratta di una commedia nera in gran parte ambientata in una valle delle Alpi d'invenzione e con protagoniste tre drag queen che ritrovatesi in alta quota per uno show si trovano costrette a fingersi donne di montagna e a partecipare al Palio dei Boscaioli, destreggiandosi con una serie di misteriosi e rocamboleschi delitti. In breve un cocktail di glitter e sangue, di crime e commedia”.

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