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Giacomo Matteotti: 100 anni fa il delitto di regime che svelò il vero volto del fascismo/2

Da decenni sappiamo che il capo dei sicari aveva raccontato, la sera stessa del delitto, come il rapimento si era trasformato in omicidio; il fatto era stato riferito al Duce che, probabilmente, avvertì i suoi ministri che gli assassini erano fascisti
PRIMA PUNTATA

Da decenni sappiamo che il capo dei sicari aveva raccontato, la sera stessa del delitto, come il rapimento si era trasformato in omicidio; il fatto era stato riferito al Duce che, probabilmente, avvertì i suoi ministri che gli assassini erano fascisti; comunque Grandi disse: “Siamo davanti ad un triste episodio di ferocia individuale ed anarchica per il quale nessuna spiegazione, nessuna attenuante è possibile (approvazioni). L’on. Matteotti era un oppositore talvolta non equanime e non sereno. Ma questa constatazione che io faccio al di sopra di ogni rancore e di ogni polemica, non turba e non diminuisce di una linea sola la nostra riprovazione e il nostro dolore (approvazioni). Gli autori di un sì nefando delitto non possono considerarsi nelle file di qualsiasi partito politico. Appartengono a zone grigie… non furono come i fascisti contro una legge, ma contro la legge… l’aggressione contro Matteotti non è stata meditata e consumata contro il socialismo, ma contro il fascismo (applausi della maggioranza).

C’è un corsivo di Degasperi, intitolato “Nota”. “Dai discorsi oggi pronunciati alla Camera si arguisce facilmente che l’on. Matteotti è scomparso e per sempre… Avversari dell’onorevole, lontani dalle sue idee e dalle sue concezioni, pure vedemmo in lui un uomo di carattere che aveva dedicato alla causa del suo partito tutto se stesso… Il Governo per bocca dell’on. Mussolini ha espresso un forte rammarico, mentre le opposizioni con segno eloquente di protesta, avevano disertata la seduta” preludio alla mossa che passerà alla storia come l’Aventino.

Ancora dallo scritto di Degasperi: “E’ necessario che la vita riprenda il suo ritmo normale, bisogna imporsi tutti una rigida disciplina di rispetto reciproco, una maggior compostezza di metodi polemici ed una ragionata libertà di accento e di pensiero che assicuri l’incolumità personale”. E poi la citata “Nota” prende alla lettera la frase del deputato fascista Carlo Delcroix, il grande invalido della guerra, Bersagliere sulla Marmolada, Medaglio d’Argento al valor militare, eletto parlamentare nel “Listone”, il partito di Mussolini, protagonista di vari segni di dissenso ben prima del delitto Matteotti: “E’ giunto il momento di trarre dal fascio littorio la durissima scure per abbatterla sul nodo della violenza”. E l’applauso era stato corale, con tutti i deputati in piedi. Anche i giornalisti, anche il pubblico erano in piedi e molti intonarono la Marcia Reale. E’ vero, l’impressione dettata dalla scomparsa del deputato socialista fu vivissima, a livello politico e di opinione pubblica. Basta leggere i dati delle diffusioni dei giornali in una Italia scarsamente confidente con la carta stampata. Le vendite avevano avuto, ed mantenuto per settimane, impennate vistosissime. La certezza che il rapimento sia sfociato in omicidio fanno crescere l’ansia e la rabbia che esplodono domenica 15 giugno con il titolo a tutta pagina: “Dopo la scomparsa dell’on. Matteotti - Più dura il mistero, e più cresce l’orrore e aumenta l’esecrazione”.

Leggendo gli articoli del quotidiano fondato da Alcide Degasperi, ma sarebbe più appropriato dire rinato dalle ceneri de “Il Trentino” chiuso all’inizio della Grande Guerra, però riaperto il 26 novembre del 1918 con la direzione affidata appunto a Degasperi, si vede come era cresciuto lo scontro elettorale con il fascismo che, giorno dopo giorno, diventa sempre più duro. Per diventare estremo - la stampa era ancora libera – proprio con il “caso Matteotti”. Intanto l’on. Aldo Finzi rassegna le dimissioni dalla carica di sottosegretario agli Interni e di vice commissario della Regia Aeronautica perché “mi risulta che in un’adunanza dell’opposizione, si è fatto il mio nome in relazione, sia pure indiretta, all’orrendo delitto che io, più di qualsia altro, condanno reputandolo orribile, vilissimo e inutile”. Anche il Capo dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio, comm. Cesare Rossi si dimette in quanto “mi sono pervenute allusioni relative allo sciagurato episodio Matteotti” e, ovviamente, rivolto al Duce, si disimpegna anche dalla carica di membro del Quadrunvirato del Partito”.

Nel Trentino è “Il Brennero” di sabato 14 giugno a dare oltre a quelle sul rapimento, una notizia che accompagnerà e condizionerà il Ventennio. E’ l’articolo di fondo intitolato “Il pensiero dell’ora” a fare in punto politico su un problema all’epoca poco noto fuori dalla Venezia Tridentina. “Non lievi preoccupazioni nazionali sono sul nostro orizzonte, come quelle riguardanti le mosse romane dei deputati atesini tedeschi”. Proprio in quei giorni dettati dalle urgenze del delitto, cominciò per Mussolini la crescente, devastante preoccupazione sul problema dell’Alto Adige. Diventerà predominante con l’Anschluss, Berlino e Vienna unite che avrebbero formato una Grande Germania. Appunto la presenza del Reich al Brennero, che Adolf Hitler avrebbe potuto attraversare in un baleno per assorbire con l’Alto Adige indiscutibilmente tedesco, la Pianura Padana, il porto di Trieste e le miniere del preziosissimo mercurio, indispensabile per gli esplosivi dell’epoca, di Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata, in Toscana, spaventerà e condizionerà, con quello del Duce, il futuro del Regno d’Italia. Di certo, la rivoluzione europea iniziata da Hitler con l’Anschluss, che egli anni Cinquanta verrà definito un “fatale avvenimento”, colpiva profondamente gli interessi italiani con la possibilità da parte del governo nazista, di realizzare, con l’occupazione del Sud Tirolo, un altro punto del programma di unità di tutto il popolo tedesco.

Capitolo fondamentale nella storia del Regno d’Italia, il viaggio del Führer a Roma fra il 3 e il 10 maggio del 1938 fra una pirotecnica facciata di ricevimenti, banchetti, parate di trentamila soldati nella Via dei Trionfi, la rivista navale nel golfo di Napoli con i sommergibili della Regia Marina - forse erano davvero cento - che nello stesso istante dopo la salva dei cannoni di coperta - si immergono, passano sotto la corazzata sulla quale si trovavano il Duce, Hitler, il Re, per riemergere tutti assieme sull’altro lato di quella nave irta di cannoni. Immagini documentate nei documentari del film “Luce” che mostrano una idilliaca alleanza. In realtà Vittorio Emanuele vedeva in Hitler “una specie di degenerato psicofisico” e con Mussolini, pochi giorni prima della vista di Hitler, a dire di essere “pronto a scatenare la più dura guerra nella quale coalizzare contro il germanesimo tutto il mondo per mettere a terra la Germania per almeno due secoli” perché sotto la spinta della propaganda nazista sembrava che i duecento mila tedeschi del Sudtirolo “stessero alzando un po’ troppo la testa”. Insomma si era riacceso il timore per la questione dell’Alto Adige; quel timore sempre presente di “vedere spostato di una solo metro il palo di frontiera”, come si diceva a Palazzo Venezia portò il Duce ad allearsi al nazismo. Per contro - e anche questo è stato scritto da Renzo De Felice il maggior studiose del fascismo e pubblicato nel gennaio del 2001 - “l’interesse e la deferenza di Hitler per il verbo di Mussolini era così forte, da spingerlo a sacrificare la sorte dei tedeschi dell’Alto Adige sull’altare di una collaborazione fra Germania e Italia”. Ma, come scrisse De Felice, la preoccupazione sulle manovre degli atesini in quel di Roma, “passano in seconda linea davanti all’aggravarsi della situazione.

Le parole pronunciate dal Presidente della Camera Alfredo Rocco, dall’on. Dino Grandi e da S.E. Mussolini non lasciano dubbi possibili… si impone a tutti i fascisti di tenersi nella più rigida e disciplinata immobilità sulle posizioni di battaglia. L’incredibile delitto perpetrato contro l’on. Matteotti non è soltanto detestabile, ma rappresenta la più ignominiosa pugnalata inferta nella schiena al fascismo e al Governo che ne è l’espressione. La nostra voce di esecrazione e di dolore per l’odioso misfatto consumato contro l’avversario del fascismo, si unisce oggi alla voce di tutta l’Italia civile”. C’è un appello alla giustizia “che sia immediata”; si fa capire che è vicina una svolta nelle indagini, si afferma che “il cadavere sarebbe stato trovato nel più profondo del bosco, in un punto vicino a Viterbo, dell’Altipiano dei Monti Cimini, crivellato di pugnalate”. Il rapimento avvenne il 10 giugno, i cronisti de “Il Brennero” hanno ricevuto dai camerati giornalisti di Roma le informazioni giuste, compresa l’uccisione per pugnalata. Come aveva detto quel Fillippelli, il direttore del “Corriere Italiano” e proprietario dell’auto usata per l’aggressione e la verità sul delitto e dei suoi mandanti veri o presunti, cominciava ad emergere sconcertando anche le Camice Nere di provata fede. Come si diceva a quei tempi.

Nelle ore successive si apprese che Giacomo Matteotti era stato rapito verso le 16.30 del 10 giugno in prossimità della sua abitazione, in via Pisanelli, nei pressi di quello che oggi è il Ministero della Marina; era appena uscito da casa e aveva preso il Lungotevere Arnaldo da Brescia diretto alla fermata del tram numero 15 che da Piazza del Popolo conduceva a Montecitorio. Da alcuni giorni trascorreva i pomeriggi nella sala di lettura della Camera per preparare, così affermarono i colleghi deputati, un intervento sul bilancio dai contenuti e dai toni più aspri di quello pronunciato il 30 maggio, in cui aveva denunciato il clima di violenze ed intimidazioni gravate sulle elezioni politiche del 6 aprile di quell’anno. In vero le aggressioni fasciste erano cominciate a Bolzano in modo sanguinoso, il 24 aprile del 1921, quindi antecedente la Marcia su Roma. Fu la tragica “Bozner Blutssontag”, la domenica di sangue, la prima dimostrazione di quella che sarà l’oppressione fascista nel gioco parlamentare e la prima delle sanguinose aggressioni compiute al di fuori dai territori della Lombardia, Veneto, Toscana, soprattutto nelle zone agricole padane a cominciare dall’ Emilia, luoghi insanguinati dalla violenza delle squadre nere. Insomma, quasi un preludio alla citata marcia. Quel sabato di giugno, come si legge nelle note dei giornali romani, faceva molto caldo, c’era poca gente in giro e Matteotti camminava con passo svelto, indossando un abito grigio e scarpe bianche, non portava né il cappello né il gilet e sottobraccio teneva una voluminosa busta con l’intestazione Camera dei Deputati. Non si avvide di una vistosa automobile in sosta sotto i platani, ferma da tempo, al punto che un portinaio di una casa della zona, insospettito da quella prolungata presenza e dai cinque uomini che, nonostante il caldo, stavano richiusi nel veicolo, aveva annotato il numero di targa. L’auto partì di scatto, quattro uomini balzarono dal veicolo e afferrarono il deputato. L’ aggredito si difese con forza e continuò a dibattersi mentre l’auto, strombazzando, si dirigeva verso Ponte Miglio.

Matteotti riuscì a gettare dal lunotto posteriore fracassato con un calcio, la sua tessera di deputato, che raccolta da un passante, venne consegnata alla Polizia mentre chi era alla guida, continuava a suonare il clacson per coprire la grida d’ aiuto del prigioniero. Gli assalitori che divennero assassini, agirono appunto in pieno giorno, a viso scoperto, senza nascondere la targa dell’auto, un vistoso 55-12169 tracciato in vernice nera su sfondo bianco; così si apprese che l’automobile usata per rapire il deputato socialista, era un veicolo di lusso, una Lancia Lambda, carrozzeria torpedo, di colore nero, con sei sedili e una lastra di vetro scorrevole, a dividere il posto dell’autista da quelli dei passeggeri. Anche quella andò in frantumi nella violenta colluttazione e un altro calcio colpì i testicoli di Giuseppe Viola, l’assassino materiale di Matteotti, un ex ardito milanese che nella Grande Guerra era stato un “Caimano del Piave”, uno di quegli uomini che di notte, serrando il pugnale fra i denti, guadavano il fiume per uccidere con un fendente alla gola, i soldati austriaci di sentinella sull’altra sponda. Li temevano anche i fanti del Regio Esercito quando arrivavano nelle prime linee. Li chiamavano “taglia gola”, pronti ad uccidere quanti, nelle trincee e prima dei devastanti attacchi, mostravano paura. Fascista della prima ora - come si diceva a quei tempi - condannato per rapina e, stranamente visto il suo fanatismo in guerra e la decorazione ricevuta, per diserzione, però amnistiato nel 1919, era diventato un pretoriano di Mussolini. Le indagini stabilirono che Viola era seduto sul sedile posteriore dell’auto e cercava di tenere fermo il prigioniero. Quando venne colpito ai testicoli, sfoderò il corto e affilatissimo pugnale usato in guerra che portava sempre sotto la giacca e tagliò la gola del deputato. Come gli avevano insegnato a fare in trincea. E’ la cronaca de “il nuovo Trentino” a ricostruire l’accaduto. Così si apprende, visto che di Matteotti si era persa ogni traccia, che fosse stato ucciso e subito, su tutti i giornali del Regno - compreso quelli smaccatamente fascisti - si parlò di orrendo, mostruoso delitto. E’ documentato che l’impressione destata dal rapimento fu vivissima, a livello politico e di opinione pubblica, e il sospetto che Mussolini vi fosse in qualche modo implicato, si ingigantì anche nelle file fasciste e, certamente, è ancora attuale, né si sfarinarono anche quando il Governo guidato dal Duce - e la dichiarazione fu immediata quanto solenne - assicurò che i colpevoli si sarebbero trovati e consegnati alla giustizia perché “la legge avrà il suo corso. Di più non si può chiedere al Governo”. Come davvero avvenne. Le indagini stabilirono che, col morto in mano, quella banda di bislacchi perse la testa. Probabilmente non avevano progettato di uccidere, ma solo di picchiare e spaventare Matteotti perché con quel cadavere nell’abitacolo, l’automobile vagò per ore e lungo nei dintorni di Roma, girovagando per stradine di campagna sino a che, verso sera, i cinque trovarono un posto per seppellirlo nel bosco di Quartarella che quando dopo molti giorni si scoprì il cadavere, i giornali romani lo indicarono in una zona deserta, a 23 chilometri dalla città, verso la via Flaminia. Appunto lì si decise l’affossamento del corpo.

Non avendo gli attrezzi adatti per scavare - soprattutto questo particolare dimostrerebbe la non intenzionalità di ammazzare - prepararono con un cric in dotazione alla Lancia una fossa poco profonda e sempre secondo i giornali dell’epoca, racconto ripreso da quanti negli anni successivi scrissero attorno a quel delitto, ci ficcarono il morto piegato in due. Guidava Amerigo Dumini, il capo della “ceka fascista”, un toscano nato in Texas da un pittore fiorentino emigrato negli Usa. Rientrato in Italia per arruolarsi nel Regio Esercito rinunciando alla cittadinanza americana, si era arruolato, volontario, nei Battaglioni della Morte composto da Arditi, soprattutto esperti nell’impiego dei lanciafiamme, delle bombe a mano e del pugnale e, fregiato di Medaglia d’Argento al valor militare, entrò nelle file del fascismo nascente. Si presentava così: “Dumini, nove omicidi”; disponeva di una stanza al Viminale, allora sede della Presidenza del Consiglio e nel cortile di quel palazzo parcheggiò l’auto usata nel sequestro. Dumini, questo è certo, era il capo militare della “ceka fascista” che Renzo De Felice indica come “squadra costituita, per quel che se ne sa, dopo le elezioni del 6 aprile del 1924” le ultime multi-partitiche a sovranità popolare svoltesi prima dell'avvento della dittatura fascista. “In occasione di una riunione del direttorio del Partito fascista, Marinelli aveva informato gli altri membri del consesso, che Mussolini riteneva opportuno costituire una squadra di polizia interna di partito, sia per la sorveglianza e la disciplina dei locali degli uffici, sia per funzioni informative. L’organizzazione della squadra doveva essere curata dallo stesso Marinelli che aveva pensato di metterle alla testa Dumini”.

Che non era un uomo qualunque e soprattutto assistito dal una incredibile fortuna. Per esempio, nel 1941, nella seconda guerra mondiale, catturato dagli inglesi in Cirenaica, era stato condannato alla fucilazione per spionaggio. La sentenza viene subito eseguita, il plotone di esecuzione lo colpì con 17 fucilate. Ma la scarica non lo uccise, in qualche modo riuscì a nascondersi, sopravvivere, guarire, fuggire e raggiunta la Tunisia, e tornare in Italia dove Mussolini lo accolse come un miracolato. E, francamente, miracolato lo era davvero. Dopo la fine del fascismo, vennero a galla quelli che furono indicati come i torbidi intreccio di violenze politiche ed affari in cui la “ceka” composta da un gruppo di squadristi di provata fede, che avevano preso il nome della polizia segreta di Lenin organizzata nei primi anni della rivoluzione bolscevica. Agiva come la mano armata del regime non solo contro gli avversari, ma anche contro i dissidenti fascisti considerati “traditori”.

Gli uomini, un gruppo davvero ristretto, erano ex combattenti, Arditi delle Fiamme Nere, addestrati all’uso del pugnale che sul Piave avevano rischiato ogni giorno, soprattutto ogni notte quando attraversavano il fiume, la morte. Dopo la guerra si trovarono in una realtà di pace, incapaci di adattarsi alla vita dei disprezzati borghesi, erano spiantati, in cerca di un ruolo, soprattutto di danaro e di violenza alla quale erano stati ferocemente addestrati. Erano quelli già appartenenti al gruppo “Arditi fascisti di Milano”, i più scatenati. Ai vertici della “ceka”, c’erano il capo ufficio stampa della Presidenza del consiglio Cesare Rossi e il segretario amministrativo del Partito fascista Giovanni Marinelli. L’attività del manipolo non può essere nata senza l’ausilio di uomini di vertice, quali il capo della polizia Emilio De Bono che forniva documenti falsi, garantendo coperture e impunità; De Bono fu soldato fin dalla guerra in Libia nel 1911. Ma anche l’ideatore dei campi di concentramento vicino a Tripoli: che furono un atroce orrore.

Nella Grande Guerra compose il testo della celebre canzone "Monte Grappa, tu sei la mia patria". Venne fucilato a Verona per aver firmato - ma forse per la tarda età e nella confusione di quel processo, non aveva capito cosa stava sottoscrivendo - l’ordine del giorno che licenziò Mussolini e fece crollare il fascismo. Ma era Marinelli il più zelante, ottuso e cinico collaboratore del Duce. Quel figuro era stato fra i fondatori dei “fasci di combattimento” il 23 marzo del 1919 nella storica riunione di Piazza San Sepolcro in quel di Milano, poi segretario del partito, senatore, ministro e rieletto con il voto del 6 aprile del 1924 nella Lista Nazionale, detta “Listone”.

Fu il parlamentare che più di altri inveì, insultò, minacciò Matteotti durante l’intervento in Parlamento di quel 30 maggio sempre del Ventiquattro, per poi pavoneggiarsi con il Duce. Ma il 25 luglio del 1943, fiutando l’aria della disfatta militare e del crollo di Mussolini, votò l’Ordine del Giorno di Dino Grandi che chiedeva al Duce di rimettere nelle mani degli organi costituzionali, tutti i poteri loro spettanti e di restituire il totale controllo delle forze armate al Re. Era la fine della dittatura nata il 31 ottobre del 1922 quando Vittorio Emanuele III aveva conferito al capo del fascismo, l’incarico di formare il Governo. Quel giorno di luglio del Quarantatre segnò la fine del fascismo accolto da un’enorme massa di italiani festanti, la stessa “folla oceanica” che, in ogni città, si stringeva ai piedi del Duce. Segnò anche la condanna a morte di Marinelli, fucilato dopo il processo per tradimento, condanna pronunciata dal Tribunale fascista di Verona. Con lui vennero giustiziati nel poligono di tiro della fortezza di San Procolo, Galeazzo Ciano che aveva sposato Edda la figlia del Duce e suo ex-ministro degli Esteri, De Bono, Luciano Gottardi e Carlo Pareschi, condannati per aver sfiduciato Mussolini nella seduta del Gran Consiglio della notte del 25 luglio. In poche ore, si scoprì che la Lancia era di Filippo Filippelli, ex segretario personale di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce e direttore del “Corriere Italiano” quotidiano ultra fascista di Roma.

E’ ipotizzabile che Dumini, a conclusione del girovagare con il corpo di Matteotti, si sia recato al giornale per ragguagliare il proprietario della Lancia su cosa era accaduto: un racconto forse udito da altri giornalisti in camicia nera e così la coltellata per uccidere e il seppellimento in un luogo non identificato, erano diventati da voci, precise note giornalistiche diffuse dalla “Stefani”, la prima agenzia di stampa italiana fondata a Torino da Guglielmo Stefani il 26 gennaio 1853, affidata a Manlio Morganti, in forza della sua amicizia personale con Mussolini, che cominciò a rilanciare a tutte le testate, notizie, comunicati più o meno ufficiali, persino i sentito dire. Era certa la deferenza di Morganti per il Duce perché, come raccontava Aldo Nicolao nella redazione di Trento dell’“Alto Adige” - e Nicolao aveva lavorato per la “Stefani” - Morganti fu l’unico italiano che si suicidò per la cacciata di Mussolini dopo il voto del Gran Consiglio. Ampio spazio sui giornali anche trentini sulle indagini; è ampiamente documentato che gli agenti della Regia Guardia per la pubblica sicurezza, con la targa dell’auto erano risaliti immediatamente al giornalista proprietario della Lancia; trovarono le vistose macchie di sangue e il vetro divisorio spaccato nelle colluttazione che precedette il colpo di pugnale.

Venne emesso un ordine di arresto, sollecitato espressamente da Mussolini e mentre la magistratura romana spiccava contro Filippelli mandato di cattura “perché imputato di aver determinato altri a commettere il delitto di illegittima privazione della libertà personale di un membro del Parlamento”, il Questore di Roma Cesare Bertini veniva esonerato e “il nuovo Trentino” pubblicava una nota di Alcide Degasperi, intitolata “I mandanti”, nella quale si legge: “Dietro gli esecutori materiali del delitto stanno evidentemente altre persone, ben più gravemente colpevoli… perché in delitti di tale natura la colpa degli esecutori, per quanto ripugnanti essi possano essere, diventa secondaria di fronte alla responsabilità di coloro per ordine e per interesse dei quali hanno agito. Arrestare il braccio e non colpire chi l’ha mosso, non sarebbe fare giustizia e parrebbe irrisione”. Interrogato in questura, il direttore del giornale indicò a chi aveva prestato l’auto: a Dumini“che gli aveva parlato d’una gita che aveva in animo di compiere assieme ad amici milanesi. Dopo l’interrogatorio” come si legge su “il nuovo Trentino”, “il direttore potè ritornare al suo giornale ove rimase tutta la notte piantonato”. Però su tutti i quotidiani italiani fu pubblicata la sua foto segnaletica. Spaventato, Filippelli decise di tentare la fuga all'estero. Cercò di aiutarlo Filippo Naldi portandolo nel suo castello di Vigoleno situato sulle colline vicino a Borgo San Donnino. Ma Filippelli era terrorizzato perché era stato riconosciuto da alcune persone nella stazione ferroviaria di Parma.

Così assieme al giornalista del “Corriere Italiano” Giuseppe Galassi, si trasferirono nell’ albergo “Aquila Romana”. Una sosta molto breve. Qualcuno avvertì Naldi che la Polizia stava per arrivare all’albergo e Naldi suggerì al collega di fuggire in Francia, soprattutto di scrivere una nota a difesa della propria incolumità. Filippelli vergò un promemoria per proclamare la sua innocenza, descrivendo quello che sapeva del delitto e lo consegnò ad un notaio. Non indicò Mussolini come mandante, ma scrisse che esisteva un organismo di polizia politica interno al Partito nazionale fascista, detta “ceka”, dove era stato organizzato il sequestro poi divenuto omicidio. Filippelli si spostò a Nervi da dove tentò di fuggire in Francia a bordo di un motoscafo. Catturato a pochi metri dalla riva, finì in carcere. Era il 17 giugno. Due giorni dopo il giornale cessò le pubblicazioni. La notizia dell’arresto, la chiusura del quotidiano, il licenziamento di giornalisti e tipografi, la conferma che solo per un caso, il blocco del motore del natante e l’intervento di un sottocapo della Regia Marina di stanza a La Maddalena che riconobbe il giornalista mentre tentava di nascondere il viso con un foulard, ebbe una eco su tutte le testate; i quotidiani criticarono aspramente la polizia, accusando il capo Emilio de Bono di inefficienza. Il 18 giugno il generale fu costretto a dimettersi dalla carica di capo della polizia. Di lunga data l’amicizia di Mussolini con Naldi.

Nell'autunno del 1914, grazie alle sue conoscenze negli ambienti finanziari, fece da mediatore tra Mussolini e alcuni gruppi industriali del Nord Italia, che si battevano per l'entrata in guerra, procurando i primi capitali e l'appoggio necessario alle operazioni per impiantare un nuovo quotidiano, socialista sì, ma con una linea interventista. Mussolini, il socialista che a Trento firmava i suoi articoli come “Vero Eretico” e allo scoppio delle Grande Guerra scandì su “l’Avanti” il motto pacifista “né un uomo né un soldo per questa guerra”, aveva assunto una posizione sempre più interventista, ma poiché i soldi ricevuti a Palazzo Farnese sede dell’ambasciata di Francia non bastavano per un nuovo giornale, venne aiutato da Naldi che raccattò i quattrini offerti dai mercanti di cannoni. I costruttori di armi avevano subito capito come l’entrata in guerra dell’Italia avrebbe ingigantito gli introiti dell’industria. Come puntualmente avvenne dal maggio del 1915.

(2. continua)

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