Troppa spesa pubblica: Trentino addormentato
Per la prima volta da decenni, il 2015 segnerà un forte calo di risorse della Provincia Autonoma. Dalla metà degli anni Ottanta, il Trentino ha registrato un continuo aumento di denaro a disposizione per la spesa pubblica, che non è mai stato interrotto nemmeno dalle gravi crisi del 1992 e da quelle della seconda metà degli anni Duemila.
Ora che il cambio di rotta è obbligato, e bisognerà imparare a correre senza il doping della spesa pubblica sovramisura, il Trentino è pronto alla sfida? La mole ingente delle risorse a disposizione in questi ultimi vent’anni è servita a rafforzare l’economia e il tessuto socio-culturale-amministrativo imprenditoriale così da rendere questa terra concorrenziale di fronte alla competizione fra territori ed economie a cui siamo chiamati?
Se guardiamo ai vari indicatori economici, produttivi e cultural-imprenditoriali, la risposta è no.
Il Trentino è fra le regioni del Nord Italia a registrare le peggiori prestazioni, superato ampiamente dalle regioni più vicine sprovviste di Autonomia, ma sicuramente più dinamiche, più in movimento, meno addormentate e sedute rispetto alla nostra comunità. Sembra quasi che i troppi soldi a disposizione in questi ultimi trent’anni abbiano anestetizzato la società trentina, rendendola totalmente dipendente dalla spesa pubblica.
Paradossalmente l’Autonomia, intesa soltanto come soldi da spendere, ha piegato l’iniziativa privata dei singoli, dando per scontato e preteso che a tutto provveda sempre e soltanto l’ente pubblico, la famosa Mamma Provincia.
Alcuni dati per comprendere la situazione. Uno studio presentato da Impresa San Paolo - e ricordato venerdì scorso al quarantesimo di Trentino Export - indica il rapporto export-Pil nella nostra provincia come il peggiore di tutto il Nord Est, comprendendo anche l’Emilia Romagna. Le imprese trentine registrano un misero 20% di percentuale export-Pil, quasi la metà di quelle del vicino Veneto che arrivano al 38%. Perfino di fronte ad altri territori «autonomi» siamo il fanalino di coda. Il Friuli Venezia Giulia raggiunge un lusinghiero 35%, e l’Alto Adige supera il 25%.
Ciò che dovrebbe far riflettere chi concepisce l’Autonomia come un fortino entro cui rinchiudersi di fronte al vento delle riforme che soffia nel resto d’Italia, è il dato dell’export media nazionale, che raggiunge il 26%. Di gran lunga superiore a quello trentino, pur avendo la nostra regione una collocazione geopolitica favorevolissima, proiettata verso l’Europa e l’Est, e con una cultura storica (almeno un tempo) mitteleuropea, che dovrebbe incentivare i rapporti europei ed esteri. Stessa dinamica si ha negli investimenti diretti esteri che sono indispensabili per stimolare le esportazioni: il peso dei dipendenti esteri rispetto a quelli nazionali è pari al 7,1% in Veneto, al 4,1% in Friuli Venezia Giulia e al 2,9% in Trentino Alto Adige. Se guardiamo al Trentino da solo, poi, si arriva al 2%, mentre la media nazionale italiana è del 6,8%.
Un dato ancora più inquietante viene dal Pil reale pro capite.
Uno studio dettagliato condotto da FBK-Irvapp reso noto nei giorni scorsi indica il tasso di crescita del Trentino negli ultimi vent’anni mediamente inferiore rispetto all’Italia.
Perfino nel periodo favorevole all’economia 1995-2007 il Pil pro-capite da noi è aumentato del 6,3% contro il 13,3% del Nord Est e il 14,8% dell’intero Paese. Così scarsa è stata la crescita negli anni d’oro delle risorse pubbliche abbondanti, che con la crisi dal 2008 al 2012 il Pil trentino è sceso ad un valore inferiore di 2,2 punti percentuali rispetto a quello del 1995.
Ciò vuol dire che gli ultimi vent’anni di politiche provinciali non solo non hanno rafforzato il tessuto economico-sociale del Trentino, ma lo hanno indebolito, rendendolo totalmente dipendente dall’iniezione di soldi pubblici.
Secondo l’equipe di ricerca del professor Schizzerotto, la ridotta crescita trentina è da ricondurre ad una limitata capacità di riallocare le risorse e l’occupazione verso i settori e le imprese maggiormente produttivi. In sostanza si è speso il denaro pubblico non per rafforzare i migliori, ma per tenere in piedi gli scarsi, coloro che non erano in grado di stare sul mercato per conto proprio.
Ciò che è mancato - continua l’Irvapp - è il miglioramento del sistema verso l’innovazione, nonostante ci si sia riempiti per vent’anni la bocca della parola innovazione-ricerca.
Impietosa è poi l’analisi sulla produttività del lavoro in Trentino, che è costantemente declinata dal 1995 al 2012, tanto che oggi l’economia trentina è composta - è scritto nero su bianco nella ricerca - da un numero contenuto di imprese molto dinamiche (quelle che competono nei mercati globali) e da un’ampia maggioranza di imprese poco produttive, soprattutto nel comparto dei servizi.
Dura l’analisi verso il mondo economico. La presenza di imprenditori in Trentino tende a diminuire e manca competitività interna alla categoria. I giovani con elevati livelli di istruzione hanno difficoltà ad aprire nuove imprese per barriere tecniche, finanziarie e sociali all’ingresso. Alla faccia dell’Autonomia come laboratorio di eccellenza e motore d’avanguardia rispetto al resto d’Italia.
I dati dicono esattamente il contrario. L’Autonomia - per come portata avanti in questi ultimi vent’anni - è diventata paradossalmente una sovrastruttura che paralizza l’economia per i troppi enti, uffici, agenzie, passaggi, meccanismi tortuosi e burocratici.
Preoccupante è la fotografia sviluppata da FBK-Irvapp anche sul fronte della mobilità sociale in Trentino e sulla formazione universitaria. Negli ultimi anni non si sono notati significativi progressi nella diminuzione delle diseguaglianze (connesse alle origini sociali) nelle chance di istruzione e nelle scelte di indirizzi alle secondarie superiori. Tradotto vuol dire che il figlio del farmacista continua a fare il farmacista, quello del notaio il notaio, l’operaio resta operaio. Inoltre il tasso di passaggio all’Università dal 2003 al 2012 è in Trentino diminuito di 16,2 punti percentuali, contro i 4,6 punti percentuali a livello nazionale.
Ora, se questo è il quadro che emerge dai dati, può risultare addirittura positiva la riduzione delle risorse della Provincia, se sarà in grado di riaccendere i cervelli e ridare dinamicità ad una società troppo a lungo rimasta seduta. Il rischio, però, se le cose sono ridotte a tal punto, è che non si sia più abituati a muoversi senza la «droga» di piazza Dante, con pericolosi effetti sulla capacità di reagire dei trentini di fronte al nuovo mondo che è uscito dalla crisi.
Il bilancio della Provincia, moloch cresciuto a dismisura negli ultimi decenni, oggi serve a finanziare per il 71% spese correnti. Lo scarso 30% rimanente è in buona parte già vincolato da scelte precedenti delle scorse legislature, che hanno impegnato i bilanci dei prossimi anni. Resta una parte residuale per investimenti, peraltro in continuo calo dato che Roma chiede all’Autonomia di fare la propria parte nel risanamento nazionale. Cosa che, di fronte a tali indicatori economici, appare pure giustificata, visto che le nostre prestazioni sono le peggiori in Nord Italia.
Purtroppo fra i trentini, a tutti i livelli (a cominciare da una buona fetta di classe dirigente, politica e amministrativa innanzitutto), la consapevolezza di tale stato di cose e dei tempi mutati è ancora scarsa. Tutti pensano che siano gli altri a dover cambiare modello organizzativo, amministrativo e produttivo. E molti - irresponsabilmente - cullano l’idea perversa che l’Autonomia possa fare da barriera al vento del cambiamento, preservando un ovattato fortilizio della conservazione di ciò che non si può più conservare. Soprattutto perché - al di là dei costi - ha dimostrato di non funzionare. O di funzionare peggio che nelle altre regioni del Nord Italia.
Se i trentini non prendono atto dei tempi mutati, il risveglio rischia di essere pesante.
Assai più pesante che nel resto d’Italia.