L'abisso del male di una società vuota

L'abisso del male di una società vuota

di Pierangelo Giovanetti

Il dolore straziante dei genitori di Luca Varani, il giovane di Roma torturato e massacrato a morte «per vedere l’effetto che fa», non trovava pace ieri ai funerali, sulla bara della vittima innocente dell’abisso del male, a quindici giorni dalla bestiale violenza.
Rimane senza risposta la domanda: perché tanto orrore? Perché tanta malvagità disumana, senza un motivo se non il gusto sadico di fare del male, il desiderio crudele di uccidere?
L’angoscioso interrogativo non affiora solo tra le lacrime e il tormento di due genitori rimasti senza il loro ragazzo. È la domanda che ciascuno di noi si pone di fronte a un delitto così atroce e privo di senso come quello avvenuto nella Roma bene di due giovani, cresciuti nel benessere, nella ricchezza e nell’infelicità del loro avere tutto.

È un qualcosa che ci scuote nel profondo, ma che ci deve aprire a una riflessione sincera dentro di noi, dentro la società di oggi ubriacata nel suo narcisismo accecante, dentro il nostro modo di essere genitori, figli, famiglie, dentro i valori che abbiamo posto alla base del nostro vivere o del nostro non-vivere, come il dramma di Roma ci pone davanti.
Al di là dei fatti mostruosi che stanno lentamente affiorando dalle dichiarazioni dei due sventurati assassini, impressiona il vuoto delle loro vite, l’assenza totale delle loro madri, la superficialità agghiacciante dei loro padri. Di fronte a una tragedia infinita, la preoccupazione di quei padri è solo l’apparenza, l’immagine, il buon nome. Non c’è nemmeno la sensibilità di capire cosa è successo, il condividere il dolore degli altri genitori che hanno perso un figlio per il gioco sadico e nichilista dei loro figli, un minimo di umana pietà per la tragedia di un ragazzo incolpevole e indifeso, diventato preda del gioco dei loro figli.

Sconvolge come all’indomani dell’omicidio la preoccupazione prima di uno dei padri è stata quella di andare nel salotto di Porta a Porta, da Bruno Vespa, seduto sulla poltroncina bianca, a sciorinare una pietosa difesa d’ufficio del figlio e di quanto aveva fatto. «È un ragazzo molto buono, forse eccessivamente buono. Un ragazzo riservato, con un quoziente intellettivo superiore alla media. Un ragazzo modello». Nessuna parola per la vittima, per la sofferenza causata ai genitori, alla fidanzata, agli amici. Nessun gesto di scuse, come nessun pentimento si è visto in tutti questi giorni nei figli, in entrambi i due giovani assassini. E ancora l’altro ieri, di nuovo, sui giornali a farsi intervistare per dire che suo figlio non è omosessuale, è un macho, come lui un uomo che conquista le donne vere, «non un gay». È questo che importa a quel padre? È questo che preoccupa forse i genitori di oggi, di fronte ad un ragazzo lasciato morire dissanguato, scelto a caso come preda, come vittima sacrificale di una «grandezza» omicida, per dimostrare di sapere far del male?

Sconvolge e intimorisce la scala di valori che muove quel genitore, e ci richiama a interrogarci e a capire come stiamo educando i nostri figli, che valori trasmettiamo, che senso delle cose comunichiamo. È più importante l’immagine, l’apparenza, l’onore della famiglia, il gallismo macho del maschio alfa, più del senso della vita e del rispetto dell’altro?
Quanto avvenuto nella notte dei mostri ci interpella anche sul narcisismo esasperato del nostro vivere e relazionarci di oggi. Davanti a un «delitto sadico dalle modalità raccapriccianti» come è definito nell’ordinanza di convalida dell’arresto dei due malcapitati, i padri hanno saputo soltanto correre a giustificare se stessi sui social network, a dichiarare su facebook che loro hanno fatto tutto quello che c’era da fare, sono stati genitori modello, hanno dato tutto ai loro figli, e la colpa è sempre dell’altro, dell’amico Lucignolo, degli effetti della droga, dell’alcol «che porta a raptus non voluti».

Invece di essere più «sociali» e crescere nel relazionarci e comunicare con l’altro, stiamo costruendo con i social uno specchio dei nostri narcisismi, un’amplificazione del nostro vuoto interiore, un’apoteosi dell’insulsaggine dell’apparire invece di preoccuparci della profondità dell’essere.
Come si fa ad andare su facebook all’indomani di un delitto così mostruoso compiuto dal proprio figlio? La freddezza spietata, incapace di sentimento dei figli, è la stessa dei padri, che al silenzio del dolore e della compassione, del «soffrire insieme» preferiscono lo spiattellare tragiche stupidaggini sui social network, difendere la propria immagine in un gioco di specchi falsante della realtà, che sono loro i primi a non voler vedere e riconoscere.
Oltre ai padri, la bestialità della notte di Roma apre domande profonde sui figli, su come sono stati educati, su cosa è stato loro proposto, quale senso della vita e delle cose è stato loro trasmesso. Quei bamboccioni fuori corso, viziati fin da quando sono nati, con disponibilità enormi di denaro al giorno, impensabili per tanti perfino dopo il lavoro di un mese, hanno avuto tutto dalla vita, o in realtà non hanno avuto niente, soffocati dal denaro, dal benessere, dai regali, dalla mercificazione dell’affetto che è stata loro propinata? Uno dei due infelici sciagurati ha confessato di aver ucciso perché in realtà voleva uccidere il padre. Cioè voleva distruggere ciò che nella sua vita gli era stato dato, o forse non dato.
Che società abbiamo creato che non sa più dire dei no ai propri figli, che non riesce più a trasmettere il senso del bene e del male, che non comunica con l’esempio la fatica dell’impegno, la forza di rialzarsi dopo l’insuccesso, l’accettazione di sé e dei propri limiti per cercare poi di migliorarsi, non di sprofondare sempre di più nella spirale del male. L’omicidio per baldoria, per edonismo, per puro piacere, probabilmente nasce in una società che non sa più trasmettere ciò che è vero piacere, ciò che è divertimento sano, ciò che è stare con gli altri per donarsi agli altri, arricchire di sé gli altri e così arricchire se stessi.

Una società che non riesce più a trasmettere tali valori, che non riesce più a viverli dentro di sé per comunicarli ai propri figli, è una società destinata a sprofondare negli abissi del nulla. È una società di morte, che non può che trasmettere morte. Troppo a lungo abbiamo ritenuto che valori come il rispetto della vita, la centralità della persona umana, la libertà come pure la democrazia, fossero automatici, in grado di riprodursi da soli, senza la fatica di viverli ogni giorno, farli crescere, difenderli, diffonderli a scuola, in famiglia, sui giornali, nei rapporti quotidiani per strada e tra la gente. E poi un giorno, di fronte all’efferatezza di quanto avvenuto in un lussuoso appartamento di un quartiere bene di una delle nostre città, scopriamo che siamo diventati una società sterile, incapace di generare rispetto dell’altro, senso di pietà e di perdono, slancio generoso di vita, sguardo di speranza sulle cose e sul domani. La banalità del male è il passo successivo.
Non è solo il sonno della ragione che genera mostri, ma anche il nichilismo avaloriale che non dà più senso alle cose, in un malinteso sentimento di tolleranza che giustifica tutto. Anche l’uso diffuso delle droghe, dell’alcol, dello sballo, delle pasticche. Forse è arrivato il tempo di fermarsi, di tornare indietro, di rifissare i fondamenti del nostro vivere, individuale e comunitario. Svelenendo una società che trova risposta al vuoto che si è creata dentro di sè nella violenza, nell’accanimento sull’altro, sull’indifeso, sul più debole. Così, per vedere l’effetto che fa. In una tragica distruzione dell’uomo.

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