Stava, tanti processi e condanne Ma nessuno finì in carcere
A Stava la giustizia arrivò con tempi abbastanza rapidi considerando che furono necessari cinque processi. Dei 28 anni inflitti in primo grado ai dieci imputati condannati (poi lievemente ridotti nei successivi gradi di giudizio) neppure uno venne scontato in carcere. Ma in Italia ci sarebbe stato da stupirsi del contrario.
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Il dibattimento di primo grado iniziò l’8 aprile 1988. Erano passati quasi tre anni dal disastro ma quel giorno nell’aula del tribunale di Trento, presiedeva il giudice Marco La Ganga, c’era ancora un clima di tensione e di commozione per la presenza di numerosi parenti delle 268 vittime.
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Dodici erano gli imputati alla sbarra: Alberto Bonetti, coordinatore delle attività minerarie della Montedison (allora Montecatini) e poi amministratore delegato di Solmine e Fluormine; Fazio Fiorini, direttore della miniera di Prestavel dal 1967 al 1973; Alberto Morandi, direttore della miniera dal 1973 al 1976; Antonio Ghirardini, autore nel 1975 della relazione sulla stabilità dei bacini; Sergio Toscana, direttore generale Fluormine; Giuseppe Lattuca, direttore della miniera dal 1976 al 1978; Vincenzo Campedel, dipendente Montedison e Fluormine e poi direttore a Prestavel per la Prealpi tra il 1980 e il 1983; Giulio Rota, legale rappresentante della Prealpi dal 1978; Giuliano Murara, dirigente dell’Ufficio minerario della Provincia; Mario Garavana, dipendente della Prealpi preposto ai servizi esterni della miniera; Giuliano Perna, ingegnere capo del Distretto minerario della Regione fino al 1975; Aldo Currò Dossi, ingegnere capo del Distretto minerario dopo il 1975. C’erano poi 534 parti civili ammesse.
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La sentenza venne letta l’8 luglio 1988. I giudici ebbero mano pesante soprattutto sui dirigenti e tecnici Montedison: Bonetti, Fiorini e Ghirardini vennero condannati a 5 anni di reclusione, Morandi e Toscana a 4 anni e mezzo; Campedel e Currò Dossi a 4, Lattuca, Rota e Perna a 2 anni e 6 mesi. Garavana fu assolto per insufficienza di prove mentre Murara venne assolto per non aver commesso il fatto.
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Il 14 dicembre 1989 la Corte d’appello di Trento riformò parzialmente la sentenza: ridusse a tutti le pene e assolse Rota, Campedel e Ghirardini. «La prima sentenza, che già era stata assai mite, esce ulteriormente annacquata - scrisse l’inviato di Repubblica - da una generale riduzione di pena e da tre inattese assoluzioni. Sette condanne, per quell’immane disastro, e le più severe sono a quattro anni, tre dei quali condonati. Nessuno andrà in galera, per la tragedia di Stava. Ad avere brevemente conosciuto il carcere, anni fa, sono paradossalmente quattro imputati minori poi assolti». La partita giudiziaria, tuttavia, non era ancora finita.
La sentenza della Corte d’appello di Trento venne impugnata per Cassazione. Questo terzo grado di giudizio modificò ancora una volta quello precedente: la Suprema corte, infatti, di fatto confermò il giudizio di primo grado. Vennero dunque annullate le assoluzioni di Rota Campedel e Ghirardini, mentre confermarono per il resto le condanne inflitte in appello e dunque anche i relativi sconti di pena.
Il processo tornò dunque davanti ai giudici, ma questa volta era la Corte d’appello di Venezia che si espresse per la condanna di Ghirardini (4 anni), Campedel (3 anni) e Rota (2 anni).
Il processo di Stava si chiuse definitivamente il 22 giugno del 1992, quattro anni dopo la prima udienza. L’ultima parola spettò ancora una volta alla Cassazione che confermò il giudizio di Venezia ribadendo dunque che corretta era stata l’impostazione data dai giudici di primo grado.
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Nel frattempo si era aperto anche il contenzioso civile tra i familiari delle vittime e Provincia, Montedison, Snam, Prealpi Mineraria e Fin-Imeg. Tutte le parti (ad eccezione di una sola causa da 60 miliardi delle vecchie lire respinta in primo grado e ora pendente di fronte alla Corte d’appello di Milano) sono state ormai risarcite e definito da tempo è anche il contenzioso tra i responsabili civili per ripartire le singole quote di responsabilità.
Tutto sommato l’enorme contenzioso civile innescato dal crollo dei bacini di Prestavel è stato risolto con una velocità sorprendente per l’Italia: circa 400 cause per 700 parti lese e risarcimenti per 500 milioni di euro definiti in pochi anni. Tutto ciò anche grazie all’atteggiamento costruttivo dei responsabili civili (Provincia di Trento, la ex Montedison ora Edison, la Snam e Finimeg) e alla rapidità della magistratura trentina. Il rischio era di fare la fine del Vajont dove per chiudere il contenzioso civile ci sono voluti trent’anni.
Altro aspetto positivo è che nel caso di Stava i risarcimenti sono stati pagati in tempi rapidi grazie all’intervento della Provincia che però poi è stata risarcita per le rispettive quote dagli altri responsabili civili. Insomma, per una volta non ha pagato tutto l’ente pubblico.
Queste furono le responsabilità penali e civili, ma c’era anche altro. «Al di là delle azioni ed omissioni penalmente rilevanti - sottolinea la Fondazione Stava 1985 - concorsero al disastro di Stava una serie di comportamenti che vanno oltre la sfera giuridica e si caratterizzano principalmente nell’aver anteposto alla sicurezza dei terzi la redditività economica degli impianti sia da parte delle società concessionarie che degli Enti pubblici istituzionalmente preposti alla tutela del territorio e della sicurezza delle popolazioni».