Inchiesta Itas: altre accuse a Grassi «Due dipendenti rimossi dall'incarico»
Non solo la presunta estorsione ai danni del presidente del Gruppo Itas, Giovanni Di Benedetto, fatto pedinare e ricattato - secondo i pm - per incassare il ricco premio ed ottenere l'impunità, evitando una denuncia.
Secondo l'accusa l'ex direttore Ermanno Grassi avrebbe messo in atto «condotte minatorie» anche nei confronti di altri dipendenti dell'agenzia di assicurazione.
Persone che sarebbero poi state «rimosse» dal loro incarico, per avere di fatto ficcato il naso in «affari» che non li riguardavano.
La circostanza emerge dalla ricostruzione fatta dagli inquirenti sulla presunta truffa per la ristrutturazione della casa di piazza Silvio Pellico e per la quale è al vaglio degli inquirenti anche la posizione di altri soggetti. Secondo l'accusa nel giugno 2014 Grassi si sarebbe trasferito nell'attico di proprietà di Itas Patrimonio, preso in affitto. Ma qui il top manager avrebbe fatto realizzare una serie di interventi per attrezzare l'appartamento con un impianto di domotica costato 135mila euro. A questo si devono aggiungere i 535mila euro che sarebbero stati spesi per gli arredi. Spese che, per l'accusa, sarebbero finite sul conto di Itas assicurazioni, figurando come interventi per la realizzazione di una nuova sede della società.
Un'operazione che non sarebbe però passata inosservata. Nei corridoi di Itas avrebbero iniziato a girare voci sulla presunta irregolarità dell'operazione, ovvero il fatto che gli arredi e i lavori apparentemente realizzati per una nuova sede Itas o comunque su altri immobili dell'azienda, sarebbero invece serviti per l'attico destinato all'ex direttore generale.
A quel punto, come ricostruisce il giudice Marco La Ganga nell'ordinanza con cui dispone la misura interdittiva del divieto di esercitare incarichi direttivi, Grassi avrebbe chiesto conto di quelle voci ad avrebbe «intimato» ad un dipendente di fare i nomi «di chi stava facendo trapelare notizie sull'appartamento di piazza Silvio Pellico», perché altrimenti «ne avrebbe fatto le spese». Una condotta che il giudice definisce di tipo «minatorio» e alla quale sarebbe poi seguita anche dalla rimozione dai loro incarichi di un paio di dipendenti, colpevoli di essersi «interessati troppo di "affari"» che riguardano il direttore generale.
Intanto, emergono altri particolari dell'inchiesta condotta dai carabinieri del Ros e coordinata dai pm Carmine Russo e Marco Gallina sulla presunta estorsione messa in atto contro il vertice di Itas Mutua, soprattutto per mettersi al riparo da una possibile denuncia e richiesta di danni per le presunte truffe messe in atto.
A confermare quello che viene definito dagli inquirenti un «quadro ricattatorio», non ci sarebbe solo il ricorso da parte di Grassi ad un investigatore privato, incaricato il 14 marzo 2016 di pedinare il presidente Di Benedetto e raccogliere informazioni personali con i quali ricattarlo in vista del consiglio di amministrazione del 20 marzo, giorno in cui sarebbero stati deliberati i premi da 392 mila euro, liquidati all'ex direttore generale e ad altri funzionari.
Spunta infatti anche l'incubo «cimice»: la paura di essere ascoltato a sua insaputa. Nell'ordinanza cautelare viene evidenziato anche un episodio che risale al 20 ottobre 2016. Quel giorno il presidente Giovanni Di Benedetto chiede al comandante dei carabinieri del Ros di eseguire un'azione di «bonifica» all'interno del suo ufficio. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti Di Benedetto avrebbe avuto il timore che il direttore Grassi avesse fatto collocare delle microspie. Una richiesta, viene evidenziato, «che ancora più evidenzia un quadro ricattatorio che sicuramente il presidente Di Benedetto avverte da parte del direttore generale Ermanno Grassi».
Il top manager indagato, per parte sua, respinge ogni accusa. Mercoledì, assistito dal suo avvocato Matteo Uslenghi, si è presentato davanti al giudice La Ganga per essere interrogato. «Non è stato un passaggio formale, ma sostanziale», aveva evidenziato a tale proposito l'avvocato, sottolineando che Grassi non si era avvalso della facoltà di non rispondere. «Il dottor Grassi si è difeso ed ha portato anche dei documenti per dimostrare che non c'è stato alcun ricatto. Nessun presidente è mai stato sottoposto a ricatto».
Ora saranno i magistrati a dovere valutare se i documenti e le spiegazioni fornite dall'ex direttore generale - dimessosi dall'incarico mercoledì mattina - bastino a fare cadere le accuse.