Usa, bando anti-islamico Giudici e piazze dicono no
La protesta contro il bando di Donald Trump all'immigrazione, fermato parzialmente sabato da un giudice federale, dilaga nel mondo e in Usa, arrivando sotto alla Casa Bianca, dove ieri diverse migliaia di persone hanno manifestato sotto lo slogan «No Muslim ban».
Trump tuttavia non fa marcia indietro: «Il nostro Paese ha bisogno di confini forti e di controlli rigidi, adesso. Guardate quello che sta succedendo in Europa e, anzi, in tutto il mondo - un caos orribile!», ha twittato.
Ma il mondo protesta. Scende in campo anche la Lega Araba, con il suo segretario generale Ahmed Aboul Gheit che si è detto «profondamente preoccupato» per le «restrizioni ingiustificate» adottate da Trump nei confronti dei cittadini di 7 Paesi islamici, con possibili «effetti negativi». E se il governo iracheno, fortemente legato agli Usa, dice di comprendere i motivi di sicurezza del bando, l'Iran non fa sconti e convoca l'ambasciatore svizzero a Teheran per consegnarli una lettera di protesta contro lo stop agli ingressi.
La protesta monta anche in tutta l'America, dove sabato molti aeroporti, in primis il Jfk, sono stati teatro di manifestazioni per la liberazione dei passeggeri detenuti. La contestazione ieri si è spostata a Battery Park, in vista della Statua della Libertà.
Ma la protesta più inattesa è stata quella davanti alla Casa Bianca, promossa sulle reti sociali con il motto «Non staremo in silenzio. Combattiamo». Diverse migliaia di persone hanno gridato ed esibito numerosi slogan contro il provvedimento di Trump.
Sul piano politico il presidente deve fare i conti non solo con l'opposizione democratica, che gli ha già chiesto di ritirare il bando minacciando iniziative legislative, ma anche con alcuni leader repubblicani, che lo hanno invitato alla cautela.
«Non è un bando dei musulmani», ha assicurato il presidente, sostenendo che «siamo totalmente preparati» e che il suo ordine esecutivo «sta funzionando molto bene».
Invece sabato si è scontrato per la prima volta con i contrappesi della democrazia, quando il giudice federale di New York Ann M. Donnelly, accogliendo il ricorso di due iracheni bloccati al Jfk, ha deciso che nessun rifugiato, nessun titolare di visto e nessun viaggiatore proveniente dai sette Paesi islamici banditi può essere rispedito indietro, per evitare «danni irreparabili».
Una decisione valida su tutto il territorio nazionale e che può portare il caso alla Corte Suprema.
La Casa Bianca ha difeso anche ieri il provvedimento. «Non c'è alcun caos», ha assicurato il capo dello staff Reince Priebus, aggiungendo che sabato 325mila viaggiatori sono entrati negli Usa e solo 109 sono stati fermati. «Gran parte di loro sono stati rilasciati.
Abbiamo ancora una ventina di persone che restano detenute», ha sostenuto, prevedendo che saranno presto rilasciate se sono in regola. Priebus ha però fatto una parziale retromarcia precisando che l'ordine non interesserà i detentori della «green card» (che consente ad uno straniero di risiedere in Usa per un periodo di tempo illimitato), un punto suggerito dall'eminenza grigia della Casa Bianca, il chief strategist Steve Bannon. Priebus ha tuttavia ricordato che gli agenti di frontiera hanno il «potere discrezionale» di detenere e interrogare i viaggiatori che arrivano da Paesi a rischio, alimentando così nuove incertezze.
A criticare le disposizioni di Trump era stato fra i primi il premier canadese Justin Trudeau
E all'indomani il Canada ha subito un attentatom terroristico contro una moschea: sei morti e otto feiti a Quebec City.
L'America di Trump non piace ai leader europei dai quali però, salvo rare eccezioni, non arrivano prese di posizione particolarmente forti.
Dopo attenta riflessione Parigi, Berlino, Roma e perfino Londra fanno sapere all'alleato americano che così proprio non va. La «necessaria lotta al terrorismo non giustifica» una misura del genere «solo in base all'origine o al credo», ha sintetizzato la cancelliera tedesca Angela Merkel.
«L'Italia è ancorata ai propri valori. Società aperta, identità plurale, nessuna discriminazione. Sono i pilastri dell'Europa», ha twittato il premier Paolo Gentiloni. Ma è stato il presidente francese Francois Hollande il primo, sabato sera, a sottolineare - in una telefonata con Trump - che «la battaglia avviata per la difesa delle nostre democrazie sarà efficace soltanto se inserita nel rispetto dei principi su cui sono fondate, in particolare l'accoglienza dei rifugiati».
Perfino Theresa May ci ripensa. Dopo essersi rifiutata in un primo momento di commentare - sulla scia della visita negli Usa e della «special relationship» diventata ancora più stretta - la premier britannica ha fatto sapere che «non è d'accordo». E ha incaricato i ministri degli Esteri Boris Johnson e dell'Interno Amber Rudd di contattare i collaboratori di Trump per mettere in chiaro che sulla protezione dei diritti dei cittadini britannici Downing Street non intende transigere.
Il primo ministro canadese Trudeau ha precisato: «A chi fugge dalle persecuzioni, dal terrore e dalla guerra, sappiate che i canadesi vi daranno il benvenuto, non importa quale sia la vostra fede. La diversità è la nostra forza».
Diviso il mondo islamico, che in gran parte resta in silenzio. A parte l'Iran, che dopo la decisione sulla reciprocità delle misure, ha inviato a Trump una lettera di protesta attraverso l'ambasciatore svizzero. E l'Iraq, che ha detto di comprendere la decisione ma spera nella «relazione speciale» con Washington.