Tosca Giordani, classe 1922, ricorda con emozione quando votò per la prima volta: era il 10 marzo 1946
Alle ragazze di oggi: «Chi non va a votare poi non può lamentarsi se le cose vanno male»
Lei che al mattino presto andava con la bicicletta fino a Trento a prendere duecento panini per i partigiani della Lagarina. Lei che di notte, dopo il lavoro in fabbrica, si recava a Rovereto a ritirare i fucili insieme alla cugina Vincenzina per l'antifascista Giovanni Rossano e poi li nascondeva sotto ai cappotti rischiando ogni volta la vita. Lei che tante volte per un soffio fuggì alla cattura. Mentre anche nelle sale trentine viene proiettato Suffragette , il film di Sarah Gavron, nel quale viene ricostruita la storia di come il Parlamento inglese arrivò a concedere il voto alle donne nel 1928, questa donna, che ancora va nelle scuole per parlare del suo vissuto e di quello dei partigiani della Lagarina, racconta la sua conquista del voto, che è stata anche una conquista di autonomia e di responsabilità. Accanto a lei, mentre racconta questa fase della sua giovinezza, c'è Mara Rossi, presidente dell'Anpi di Rovereto. Per quest'ultima i ricordi della conquista del diritto di votare sono legati ai racconti della mamma, comunista, e della nonna, vicina alla Dc. Tra le curiosità l'accorgimento, da parte delle donne, di non entrare nel seggio col rossetto per evitare il rischio che, umettando con le labbra il lembo da incollare, rimanesse un po' di rossetto che avrebbe invalidato il voto. Oppure l'insegnamento della nonna, ancora vivo nella sua mente, che le raccomandava di andare a votare. «Mi diceva sempre che chi non ha vissuto gli anni precedenti, quando non si poteva andare, non può sapere cosa vuol dire non poter esprimere la propria opinione».
Signora Tosca, cosa ricorda di quel primo voto?
Fu un'emozione grandissima anche se c'era anche tanta paura perché non si sapeva cosa fare. Eravamo appena usciti dalla guerra e c'erano ancora le donne fasciste che andavano in giro casa per casa a predicare di non andare a votare o se si andava di votare per la Monarchia. Ricordo che mia mamma, che è morta poco dopo, anche dopo la Liberazione mi diceva di stare attenta perché la guerra era finita ma le persone non erano cambiate. In paese ci si conosceva tutti e si sapeva da che parte stava uno o l'altro.
Si ricorda cosa fece quel giorno, con chi andò alle urne?
Certo che mi ricordo. Sono andata con mia mamma Leopoldina, che per l'occasione si era fatta un vestito rosso. Era comunista e non lo nascondeva. Anzi, in quell'occasione voleva proprio mettere in mostra il suo pensiero. Andammo insieme a mio padre Ettore nel seggio di Pedersano, dove vivevamo. Ricordo che in Trentino l'adesione fu abbastanza alta. Quella prima volta c'era paura di sbagliare, perché bastava un niente che annullassero le schede. Si entrava a uno a uno, si votava. Il voto delle donne fu fondamentale perché alla fine della guerra erano molte di più degli uomini. Qualcuno credeva che avrebbero seguito i consigli degli uomini, dei mariti, ma in realtà, nel segreto dell'urna, ognuna seguì la propria coscienza.
Le donne partecipavano alla vita politica, ai dibattiti, discutevate tra di voi?
Le donne all'epoca non si mettevano molto in mostra, basta dire che non potevano nemmeno indossare i pantaloni. Ricordo che mio padre, che era molto avanti come mentalità ed era rispettoso delle donne tanto che la mamma non la chiamava la mia donna, come si usava all'epoca, un giorno andò da mia madre e le chiese di fare a me e a mia sorella due paia di pantaloni perché non voleva che andando in bici ci scoprissimo troppo le gambe. Per questo venne criticato dal parroco dal pulpito della chiesa. Per quanto riguarda il dibattito politico c'erano comizi e dibattiti. Le donne più che altro ascoltavano, anche se al diritto di voto si arrivò per riconoscere anche il valore dimostrato dalle stesse nella guerra, del loro impegno come partigiane.
E lei come divenne partigiana?
Iniziò tutto con un tema che la maestra mi disse di fare su Mussolini. Ero in quarta elementare. Casualmente quel giorno a casa mia c'era mio nonno che mi raccontò che lui era amico di Mussolini, che lo aveva conosciuto quando era socialista e che gli aveva anche comprato un cappello al negozio Bacca di Rovereto dopo uno dei suoi comizi nella nostra zona. Cappello che Mussolini non gli aveva mai pagato. Poi mi raccontò del giorno in cui Mussolini arrivò alla stazione di Rovereto con le scarpe rotte e gli chiese di acquistarne un paio perché non aveva soldi. Scrissi tutto quel racconto, ma la maestra, appena lo lesse, mi strappò il quaderno davanti agli occhi e fece chiamare subito mio mamma. Da lì partì tutta la mia rabbia verso Mussolini. E all'epoca senza la tessera fascista non si poteva fare niente, non si trovava lavoro. Fortunatamente fu mio padre, che aveva fatto un lavoro al cotonificio Pirelli, a parlare col direttore il quale dopo pochi giorni mi fece chiamare. E lì ho lavorato per 17 anni fino quando mi sono sposata, a 33 anni.
Per l'epoca non era proprio giovanissima.
Colpa della guerra. All'epoca avevo un ragazzo che aveva combattuto in Albania. Quando tornò non stava bene. Fece un concorso a Roma per entrare nelle ferrovie ed era felice perché sembrava fosse andato bene. Invece quando tornò da quel viaggio si sentì male, la situazione precipitò e il 27 luglio del 1948, proprio il giorno del mio compleanno, morì. Un anno dopo morì anche mia mamma e l'anno dopo ancora anche papà. Furono anni terribili. Rimanemmo solo io e mia sorella. Dopo un po'conobbi il mio futuro marito, Giuseppe Galvagnini, di Villa Lagarina e ci sposammo. Dal nostro matrimonio nacquero cinque figli, tre maschi e due femmine.
E gli esiti delle elezioni, dopo il voto, come si seppero?
La gente chiacchierava, e poi qualcuno in paese aveva la radio e si comprava il giornale, il «foglio», lo chiamavamo. Lo comprava uno in paese e poi passava di casa in casa. Solo in pochi avevano la possibilità di spendere soldi.
Oggi cosa si sente di dire alle ragazze chiamate alle urne per le quali il diritto al voto è un qualcosa di acquisito?
Dico loro che devono andare a votare perché è inutile poi lamentarsi. Quando qualcuno mi parla e si lamenta di come vanno le cose io la prima cosa che faccio è chiedere a queste persone se hanno votato. Se mi dicono di no dico loro che non hanno nemmeno diritto di lamentarsi. Votare è un diritto ma è anche un dovere. Io sono sempre andata a votare e ancora lo faccio.