Stava, l'inferno di fango 30 anni dopo L'urlo di 268 vittime innocenti - FOTO - VIDEO
È impossibile immaginare l’apocalisse. Possiamo però contarne i secondi. Ne bastarono una manciata. Il tempo di bere un caffè, e l’intera valle di Stava fu inghiottita dal fango insieme a 268 tra uomini, donne e bambini (tanti bambini). Ma osserviamolo scorrere il cronometro della catastrofe, una lancetta impossibile da fermare e rapidissima nel progredire verso l’esito finale, l’apocalisse.
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Erano le 12, 22 minuti e 55 secondi del 19 luglio 1985. L’ora è esatta, registrata con precisione cronometrica dal sismogramma di Cavalese, scolpita da un ago tremante su un foglio di carta.
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All’improvviso, in località Prestavel, cedette l’arginatura del bacino superiore. Era, di fatto, una discarica nel cuore delle montagne dove per decenni erano stati raccolti i fanghi prodotti dalla lavorazione della fluorite.
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Alle 12, 22 minuti e 55 secondi a Stava e Tesero la vita correva, placida, come tutti i giorni: negli alberghi si serviva il pranzo, anziani tornavano dai negozi con la spesa in mano, qualche bambino si attardava ancora sui prati, turisti milanesi o sardi si godevano l’aria pulita. I destini di tutti loro erano segnati: la condanna dei 268 innocenti era, infatti, irrevocabile.
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Questo benché la sentenza di morte in realtà era già stata scritta molti anni prima, quando la follia di pochi permise la formazione in cima alla val di Stava di quei due rilevati di decantazione dai «piedi» di sabbia bagnata. L’ondata di fango era ormai in viaggio.
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Nella sua corsa verso fondovalle inghiottiva e distruggeva tutto. Per avere un’idea di quel che accadde non basta immaginare una valanga. A flagellare la valle fu una specie di eruzione, uno tsunami indescrivibile per dimensioni e potenza. Il fango assunse le sembianze di una bestia enorme: 180 mila metri cubi, liquefatti, che correvano ad una velocità di 25 metri al secondo, cioè 90 chilometri orari.
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Per chi si trovava a Stava non c’era scampo. Non c’era più tempo per scappare. Non c’era tempo neppure per dirsi addio. Tra i pochi che riuscirono a cavarsela c’era un anziano che falciava i prati proprio sotto i bacini: vide i giganti contorcersi l’uno sull’altro e riuscì per un soffio a mettersi in salvo sul pendio della montagna.
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La bestia d’acqua e fango ruggiva. Il rumore era atroce. Un testimone lo descrisse come «cento camion che nello stesso momento scaricano il loro bagaglio di sassi e ghiaia». Un altro come «essere sui binari tra due treni merci che ti sfiorano a tutta velocità». Lo spostamento d’aria investì il paese insieme ad una nube biancastra formata dalle sabbie fini che componevano gli argini. Subito dopo arrivò la marea di fango che si ingrossava metro dopo metro.
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Alle 12, 23 minuti e 45 secondi il sismogramma, il cui tracciato è stato interpretato da un equipe di esperti giapponesi, registrò un picco. In quel momento ci fu l’impatto con l’abitato di Stava. È davvero impossibile immaginare l’apocalisse. I numeri, però, aiutano ad avvicinarci a quanto accadde trent’anni fa.
«TROVAI MIA FIGLIA MORTA ABBRACCIATA ALLA MAMMA»
Il fango provocò la morte di 268 persone, la distruzione completa di 3 alberghi («Stava», «Erica» e «Miramonti», letteralmente spazzati via), 53 case e 6 capannoni; 8 ponti furono demoliti e 9 edifici gravemente danneggiati. Si salvò la settecentesca chiesetta dell’Addolorata in località Palanca, solo sfiorata dalla catastrofe.
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Il fango era ovunque, ma non era ancora domo. Alle 12, 24 minuti e 44 secondi - vale a dire un minuto e 50 secondi dopo il primo crollo al bacino superiore di Prestavel - la colata raggiunse la periferia nord di Tesero. Molti degli abitanti di via Mulini a quell’ora erano in casa, a pranzo. Intere famiglie non ebbero neppure il tempo di affacciarsi sull’uscio: furono inghiottite dall’onda di fango, cresciuta a dismisura trascinando con sé alberi, case, automobili, pietre di erosione.
TANTI PROCESSI, NESSUNO IN CARCERE
Alle 12, 25 minuti 44 secondi il sismogramma di Cavalese segnò un nuovo picco: era il momento in cui la massa di fango impattò con il vecchio ponte romano (che pur danneggiato restò in piedi) e con il ponte sulla strada statale.
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La «bestia», che a questo punto aveva percorso 4,2 chilometri, si incanalò nell’alveo dell’Avisio.
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È proprio qui, in una sorta di laghetto melmoso e putrido, che vennero trovati molti dei cadaveri, in gran parte irriconoscibili.
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Le spoglie di altre vittime del disastro vennero recuperate diversi giorni dopo dai sommozzatori persino nel lago di Stramentizzo:
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I primi soccorritori ad arrivare sul luogo del disastro, partiti proprio da Tesero, si trovarono immersi in un paesaggio lunare, un campo melmoso di morte dove spuntava solo lo scheletro contorto di qualche albero: «Uno strato di fango tra 20 e 40 centimetri - si legge sul sito della Fondazione Stava 1985, che ha organizzato un vasto programma di iniziative per celebrare il 30° anniversario della tragedia - ricopriva un’area di 435.000 metri quadri circa per una lunghezza di 4,2 chilometri».
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Erano passati solo due minuti, il tempo appunto di un veloce caffè, e l’abitato di Stava non esisteva più.
I morti furono 268, un’enormità. Ma la televisione ci ha abituato alle tragedie, ci ha assuefatto alla contabilità della morte. Proviamo allora a pensare che tra le vittime c’erano 28 bambini con meno di 10 anni, 31 ragazzi con meno di 18 anni, 89 uomini e 120 donne. Pensiamo che a Stava è come se fossero scomparsi in un colpo 24 squadre di calcio, oppure 53 squadre di basket, cioè 268 morti! Una vera ecatombe.
È impossibile immaginare l’apocalisse, ma forse l’unico luogo che ci avvicina emotivamente a ciò che accadde alle 12, 22 minuti e 55 secondi è il cimitero di San Leonardo a Tesero.
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Qui riposano molte delle vittime. Qui sono seppelliti i corpi delle 71 persone mai identificate, uomini, donne e bambini che non ebbero subito il diritto di essere considerati morti anche per lo Stato (ci volle infatti una legge ad hoc approvata in fretta e furia per trasformare, anche giuridicamente, i dispersi in defunti). Passeggiare tra le tombe, osservare le loro foto sulle lapidi, leggere i loro nomi, identificare i bambini, è un modo per non dimenticare che il mandante di questa strage è stato l’uomo con la sua stupidità, la sua cupidigia, la sua incuria.
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GLI ANGELI SCAVARONO NEL FANGO
Un po’ come accade in guerra, anche a Stava si vide il peggio e il meglio dell’uomo. Il peggio per come la superficialità e la sete di profitti permisero di costruire due, instabili, discariche minerarie a cielo aperto in cima ad una valle alpina. Il meglio perché dopo la catastrofe, i soccorsi furono immediati, massicci e generosi. I primi ad arrivare furono gli stessi abitanti di Tesero che si gettarono subito a scavare nel fango alla ricerca di fratelli, figli, genitori o anche solo amici e conoscenti.
Nel complesso parteciparono alle operazioni di soccorso oltre 18 mila uomini.
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Di questi oltre ottomila erano vigili del fuoco volontari trentini (primi fra tutti ovviamente i corpi di Tesero e della val di Fiemme) più i permanenti di Trento e di Bolzano e alcuni corpi di volontari arrivati anche dall’Alto Adige.
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A Stava intervennero anche circa quattromila militari, molti di loro di leva, appartenenti 4° Corpo d’armata alpino. E ancora: Croce Bianca, Croce Rossa, Carabinieri, uomini della Polizia di Stato, della Guardia di Finanza e del Corpo Forestale, unità cinofile, sommozzatori e centinaia di volontari che si misero a disposizione.
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Questo «esercito» chiamato a scavare nel fango fu supportato da 19 elicotteri, 774 automezzi, 137 mezzi speciali, 16 gru a braccio lungo, 72 fotoelettriche, 5 battelli, 26 ambulanze, 27 cucine da campo, 144 radio portatili e 4 ponti radio.
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Il maggior numero di vittime fu recuperato nelle prime ore, ma poi la ricerca si protrasse per tre settimane.
Le salme furono composte prima nella palestra delle Scuole elementari di Tesero; la camera ardente venne successivamente allestita nella Pieve della Maria Assunta a Cavalese.
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Lo straziante rito del riconoscimento continuò fino alla metà di agosto in ambienti climatizzati ad Egna. Tanti non poterono tuttavia essere riconosciuti. Furono quasi mille i volontari della Croce Rossa Italiana che si prodigarono per giorni e giorni nella pietosa opera di recupero delle salme e del loro trasporto alle camere mortuarie.
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«A Stava - sottolinea la Fondazione a cui è affidata la memoria di quanto accadde - la struttura volontaristica di soccorso, che nelle regioni alpine vanta una tradizione secolare, ha dato ancora una volta dimostrazione di efficienza e, soprattutto, di convinta e umana solidarietà».
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