Insegnante precaria e incazzata

di Andrea Tomasi

Precaria e incazzata. Brutalmente si riassume la condizione di un’insegnante trentina che nei giorni scorsi ha scritto una lettera al sindacato. Un «grido» da parte di chi, in fondo, vorrebbe solo lavorare. Lo sfogo è nato dopo l’ennesima distribuzione di cattedre annuali in via Gilli a Trento: posti a tempo determinato per un mestiere fra i più amati e importanti.

«In tanti nell’aula Nord del Palazzo d’istruzione seduti con gli occhi incollati agli schermi di fronte a noi, mentre la voce della responsabile chiama dalla graduatoria i candidati. Attorno si sentono calcoli, statistiche e affermazioni convinte su quale cattedra verrà scelta. E intanto speri. Speri che quando arriverà il tuo turno ci sia ancora disponibile qualcosa».

 

Sognare di diventare docente

L’iter è un percorso a ostacoli: «Laurea, specializzazione (con concorso o meno), precariato, visita turistica di tutte le scuole del Trentino, famiglie lasciate per ottenere un posto a tempo indeterminato e poi cercare di fare il proprio lavoro al meglio».

La giungla dopo le Ssis
In questi anni le regole per l’accesso alla professione sono state cambiate più volte. È stata messa in soffitta l’abilitazione  tramite le Ssis (Scuole di specializzazione per l'insegnamento): «Erano due anni che tutti ricordano come un calvario, l’ammissione, ovvero test che scremavano in modo massiccio i candidati e, una volta superati i due scogli maggiori, lezioni molto teoriche e poco fruibili, tirocinio, diario di bordo (casomai fossimo colati a picco), biografia cognitiva, esami finali ed esame di Stato». Insomma non un bel quadro. «Ma ti dava un titolo, quel pezzo di carta che ti apriva la strada all’insegnamento. E infatti quel pezzo di carta ha aperto le porte alle chiamate, dalla struttura provinciale o dai dirigenti scolastici».

Didattica con la D o intrattenimento
«Prima di entrare nel mondo Ssis e poi nelle scuole sono stata seduta dietro ai banchi e ho visto cosa vuol dire didattica con la D maiuscola (...). Ora mi trovo (ma in realtà ci troviamo) ad intrattenere i ragazzi, o meglio a farli campeggiare a scuola».

70 ore di «creatività»
«(...) Dobbiamo inventarci, corsi, potenziamenti, recuperi, partite a scacchi, costruzione di bidoni per la raccolta differenziata (chissà che altro ci inventeremo, magari la conta delle formiche)… così noi possiamo scrivere sul modulo che abbiamo svolto le 70 ore, i genitori sono felici e l’amministrazione ancora di più. Ma in realtà tanti progetti e uscite non sempre danno maggiori informazioni, vista la diffusa limitatezza di conoscenza dei ragazzi».

I dubbi
«Cerchi di capire e non trovi risposte, perso nei meandri della burocrazia. Aspetti che si liberino i posti nella speranza di poter avere un futuro e allungano l’età pensionabile, vedi che i posti di chi va in pensione vengono ridistribuiti e ti chiedi per quale motivo un collega debba fare 24 ore quando qualche ora potrebbe farti gola per risicare quei punticini che ti permettono di avanzare in questa salita».

Le incertezze
«Ora c’è anche la confusione su questi Tfa (Tirocinio formativo attivo, per l’abilitazione all’insegnamento, ndr). E non sai se chi uscirà da questi corsi avrà i tuoi stessi diritti, sorpassandoti magari in graduatoria, e mentre parli con i colleghi quelle due certezze che avevi vanno in fumo perché c’è chi sostiene che avranno la nostra stessa abilitazione, che avranno più punti o che si creerà un albo provinciale e saranno presi un 50% da chi è uscito dalla Ssis e un 50% dai Tfa. Il sindacato cerca di avanzare proposte funzionali, ma a volta si è in condizioni di debolezza … perché i precari si rassegnano e gli insegnanti di ruolo si disinteressano di tutto, guardando solo al proprio orticello delle 70 ore. Intanto, da precaria, non voglio passi il messaggio che la scuola è un tappabuchi, che serve solo a fare da babysitter ai figli di coloro che lavorano».

Insegnare. Che senso ha?
«Un tempo eravamo portatori di cultura, oggi sembriamo più vittime di un apparato preoccupato esclusivamente delle istanze del consiglio dell’istituzione: quando vogliamo le vacanze? dove andiamo in gita scolastica? Peccato, perché questa nostra scuola oggi assomiglia sempre più a una malata, di patologia cronica e degenerativa. La cura? Forse basterebbe un po’ di consapevolezza da parte di tutti, docenti per primi, del diritto “politico” della scuola pubblica: di esistere, di avere le dovute risorse finanziarie ed umane».

Tratto da «Lettera di una precaria» (inviata al sindacato Uil Scuola).

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