Quando tornano i pensieri imbarazzanti

Quando tornano i pensieri imbarazzanti

di Lucio Gardin

Avete notato che quando facciamo qualcosa di imbarazzante il nostro cervello non te lo lascia dimenticare? E si tratta dello stesso cervello che non ti permette di tenere a mente cose che dovresti ricordare.

Sono certo che se mi trovassi sdraiato sul lettino del pronto soccorso in pericolo di vita e il dottore mi chiedesse che tipo di sangue ho, direi «Uhm.. credo B o forse A, sono abbastanza sicuro che si tratti di una lettera». Ma se il dottore mi chiedesse di descrivergli i pantaloncini che indossavo alle elementari, quando salendo sulla pertica al saggio di ginnastica di fronte a 350 persone si sono strappati lasciandomi in mutande, senza esitare un secondo direi «Verde col risvolto giallo, e le mutande bianche. Bianco sporco a essere precisi». Questo perché il nostro cervello ama le cose imbarazzanti.

Gli piace tenerle in vita, coccolarle, e porcele quando meno ce lo aspettiamo. Ciò probabilmente spiega molti comportamenti inspiegabili. Ad esempio, un uomo di successo con una bella famiglia e un buona carriera è nel suo giardino che prepara un barbecue di costolette, immerso da amici che brindano col Trento Doc. Apparentemente, è senza un problema al mondo, ma a un certo punto il suo cervello, frugando nella dispensa degli incidenti umilianti, seleziona un vecchio favorito, che ripete per la millesima volta, e l’uomo improvvisamente è così sopraffatto da sentimenti di vergogna che si trafigge il cuore con la forchetta da barbecue. E tutti gli amici al funerale parleranno di quanto sia stato scioccante. Una persona così equilibrata che sceglie di porre fine a tutto, lasciando inopinatamente bruciare le costolette.

E ognuno farà la sua illazione. Probabilmente avrà avuto un terribile oscuro segreto che lo rodeva, magari qualcosa che ha a che fare con la droga, o la criminalità organizzata, o qualche associazione segreta di sarte che fa pantaloncini verdi che si strappano a contatto con le pertiche. Non sanno che stava pensando a quando, nel 1975, scoprì un brufolo difficile da raggiungere all’interno della narice e iniziò a lavorarci, delicatamente all’inizio ma con intensità gradualmente crescente poi. Finché, alzando lo sguardo, si accorse che tutti i compagni di classe, incluso l’insegnante, lo stavano guardando.

E lì, con mezza mano infilata nella narice, in quel preciso istante, lui capì che gli avrebbero dato un soprannome crudele che si sarebbe attaccato come cemento epocale per il resto della sua vita. E anche alla cena di classe dei 60 anni, anche se nel frattempo fosse diventato presidente degli Stati Uniti, i suoi compagni lo avrebbero chiamato usando quel nomigliolo: «Tò varda, è arrivà el petola».

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