Fare satira è infrangere tabù

di Duccio Canestrini

Gli antichi sacerdoti druidi usavano la satira per indebolire o sovvertire il potere dei capi Celti. Gli indios Yanomami che vivono tra l’Orinoco e il rio delle Amazzoni prendono in giro un po’ tutti, e la sera, sdraiati nelle loro amache, si fanno beffe anche dei loro sciamani.
Questo per dire che ci sono religioni e culture meno seriose e dogmatiche delle nostre mediterranee/ mediorientali, che invece si prendono molto sul serio e si sono svincolate a fatica, forse non del tutto, dalle vecchie teocrazie.
Se scrivo che un testo sacro è «merda», se raffiguro capi religiosi come pedofili o assassini, se bestemmio allegramente idoli, icone, divinità, presidenti o profeti, posso avere ragioni da vendere, essere eretico o illuminato, oppure posso avere allucinazioni e cattivo gusto, dipende. Posso anche essere querelato, ma non ammazzato. Se poi qualcuno dice che me la sono cercata, tira proprio una brutta aria, quella che tirava nella reggia dei despoti che inchiodavano la lingua del giullare al portone.
Fare satira non è prendere in giro chi soffre, non è sfottere il dolore degli altri. È casomai concedersi il lusso (pericoloso, a quanto pare) d’infrangere dei tabù. Ma la satira, credo, non dovrebbe passare al vaglio del religiosamente, o dell’etnicamente o del politicamente corretto. Certo, così la si renderebbe accettabile agli estremisti. Ma la renderebbe anche bolsa, poco graffiante e dunque inutile. Il guaio è che non si può ridere con i violenti, né si può ridere dei fondamentalisti. Cioè, si può, ma quelli poi ti sparano. E non ridiamo più.
Nessuno ha la verità, nessuno ha la soluzione. Se la convivenza pacifica tra diverse religioni e culture fosse semplice, non saremmo qui a piangere i morti di un giornale umoristico. Per raccapezzarci forse dovremmo ampliare gli orizzonti, cercare altro e altrove. Dovremmo cambiare il terreno di confronto: che sia antropologico e laico, non confessionale. La religione è un fatto privato. Ognuno creda negli dei, nei santi e nei ministri di culto che vuole, sono fatti suoi. Così se tu mi prendi in giro perché secondo te il mio libro sacro è una baggianata, io contraccambio e me la rido, oppure ti mando a quel paese, ma in fin dei conti non me ne va e non me ne viene. Le tre religioni monoteiste antagoniste, che si sono sempre guardate in cagnesco, da questo orecchio non ci sentono purtroppo. Talvolta, in occasioni istituzionali, fingono di abbracciarsi, ma sotto sotto incubano mostriciattoli fondamentalisti. E il problema non riguarda soltanto i talebani. Anders Breivik, bianco, capelli biondissimi e occhi azzurri, nel 2011 ha ucciso 77 persone in Norvegia, professandosi «salvatore del Cristianesimo».
Se uno si presenta con il vero Dio dalla sua parte, sempre l’Unico e il Vero, negando la diversità e la legittimità degli altri, c’è poca speranza. Che sia il Gott mit uns dell’ordine Teutonico o In God we trust come sta scritto sul dollaro americano, non fa molta differenza. La concordia andrebbe cercata in nome dell’Uomo, non in nome di Dio.
Una delle migliori vignette a commento della strage di Charlie Hebdo rappresenta due soggetti: il primo è un «credente ferito da un non credente» cioè un religioso che si porta le mani ai capelli per lo scandalo; il secondo è un «non credente ferito da un credente» cioè un uomo con una scimitarra piantata nella pancia. C’è una bella differenza. Per quanto sgomenti ci lascino i fatti di Parigi, la risposta per ora dev’essere più democrazia, più laicismo, più libertà. E più vignette, fossero anche stupide e offensive: chi si sentirà leso, sporgerà giustamente denuncia, e ci sarà un processo. Ma guai se dovessero imperare autocensura e meno libertà, per paura.

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