Il mio Moro, un uomo solo

Il mio Moro, un uomo solo

di Luciano Azzolini

La mattina del 16 marzo 1978, in un agguato in cui persero la vita cinque agenti della sua scorta, Aldo Moro fu rapito dalle Brigate Rosse perché considerato il perno politico su cui si reggeva la Prima Repubblica.

Sono passati quattro decenni eppure quella storia è ancora qui. Nessuno ha potuto accantonarla. Anno dopo anno abbiamo ricordato questa data tanto da farla diventare «memoria» collettiva.

Che cosa sarebbe oggi il nostro paese se il disegno politico di Moro si fosse realizzato? La preoccupazione dello statista democristiano era quella di uscire da una «democrazia bloccata» per arrivare a una «democrazia dell’alternanza» e quindi a una «democrazia compiuta».

La strategia dell’«attenzione» prima e quella del «confronto» dopo dovevano condurre a una legittimazione del maggiore Partito comunista occidentale, affinché entrasse in una maggioranza di programma e votasse, proprio quel tragico 16 marzo, un nuovo governo monocolore presieduto da Andreotti.

Questo passaggio avrebbe segnato il superamento della democrazia bloccata. La legittimazione del Pci, questione di rilevanza internazionale, comportava il progressivo distacco del Pci da Mosca, ma anche il venir meno delle pregiudiziali americane ed europee al suo ingresso nell’area di governo.

Per realizzare tutto ciò, più di un decennio prima della caduta del Muro di Berlino, Moro aveva bisogno di tempo. Tempo che le pallottole dei brigatisti gli hanno negato.

Oggi, che con le elezioni dello scorso 4 marzo si è entrati nella Terza Repubblica, le domande di allora sono ancora sul tavolo nonostante le sentenze dei processi, l’avvicendarsi di commissioni d’inchiesta, la continua pubblicazione di libri, documentari e film. Moro poteva essere salvato? Lo Stato doveva accettare la trattativa con le Br? I brigatisti hanno agito da soli? Hanno confessato tutti? O solo alcuni? Si sono veramente pentiti? Ci sono stati dei fiancheggiatori? C’è stato un coinvolgimento dei servizi segreti, magari di altri Paesi? Sullo sfondo rimane, comunque, il grosso interrogativo sulla possibilità di conciliare il senso dello Stato con quello della vita. Un interrogativo che rimane ancora senza una risposta.

Moro è stato uno dei leader più controversi. Tra i politici e gli intellettuali ha trovato detrattori spietati e sostenitori convinti, è stato - come pochi - amato e addirittura odiato. Oggi, comunque, ed è forse questa la cosa più bella, i figli e i nipoti delle generazioni che quarant’anni fa vissero quella tragedia sono riusciti, per quanto possibile, a superare le vecchie contrapposizioni per togliere e «liberare» finalmente Moro dal covo dei brigatisti.

Sono riusciti a far emergere, sullo sfondo del dramma che ha accompagnato la sua fine, il profilo di Aldo Moro come politico, ma anche di Moro come uomo, intellettuale, giurista, e cristiano. Lo storico Guido Formigoni nella biografia dello statista acutamente rileva: «Con la sua fatale scomparsa, forse, si perdette l’ultima opportunità per una rifondazione della democrazia parlamentare in senso convergente e non contrastante alle spinte sociali in quegli anni tormentati. E in questa prolungata agonia, è rimasto il segno di una tragedia che non ha avuto la sua catarsi».

Oggi è tutto apparentemente cambiato, ma più che mai si avverte la fragilità delle nostre istituzioni, della nostra democrazia. Ci si interroga sulla tenuta del sistema. È da qui che occorre ripartire e in questo percorso il patrimonio di pensiero che ci ha lasciato Moro è ancora di grandissima attualità. Sì, perché questo nostro tempo ha bisogno di un pensiero che superi il tempo totalizzante dell’«Io» per tornare a dare un senso e una prospettiva anche politica al tempo del «Noi». Oggi commemorare Moro non è solo ricordarlo, ma anche renderlo nuovamente attuale.

L’avevo conosciuto agli inizi del 1971 alla «Sapienza» di Roma, dove insegnava «Storia, diritto e procedura penale» alla facoltà di Scienze Politiche che ho frequentato, e da allora il nostro rapporto non si è più interrotto.

Lo incontrai poche settimane prima del suo rapimento, ai primi di gennaio, nella chiesetta di Bellamonte. Stava pregando a testa china, inginocchiato nell’ultimo banco, non c’era nessuno. La chiesa era al buio e il freddo pungente. Gli uomini della scorta, con il maresciallo Ricci anche lui ucciso con gli altri quattro agenti, lo attendevano fuori. Indossava il solito cappotto scuro.

Mi accolse sorridendo e ci incamminammo verso casa sua che stava a monte, in direzione del Passo Rolle. Si appoggiò al mio braccio perché la strada era ghiacciata. Non lo avevo mai visto così triste e preoccupato. Gli portai uno strudel preparato da mia madre e mi ringraziò con gentilezza. Come sempre. Con me parlava molto liberamente.

Era preoccupato per il futuro dell’Italia, nell’ineluttabilità del passaggio politico a cui si preparava: il difficile rapporto con gli Stati Uniti e con gli altri Paesi europei, la freddezza dei rapporti con Henry Kissinger, le difficoltà interne al suo partito ad accettare l’apertura al Pci di Berlinguer.

Quando lo lasciai, nel tardo pomeriggio, avvertii che non era stato il professore che avevo conosciuto fino ad allora, o almeno non lo fu in quell’occasione. Aveva perso quella sua sottile ironia, quelle sue battute, a volte taglienti, non si era informato, come faceva sempre, di che cosa stessi facendo, della situazione politica del Trentino e soprattutto dell’Alto Adige.

Questione che pure gli è sempre stata particolarmente a cuore. No, mi è sembrato totalmente immerso nei suoi pensieri e sempre più solo. Cercava con ostinazione una via di uscita, ma forse la sua intelligenza gli aveva già fatto intuire che sarebbe stata un’impresa impossibile. Porterò sempre nel mio cuore quell’immagine di Aldo Moro inginocchiato nell’ultimo banco della chiesetta di Bellamonte con il capo chino, appoggiato alle mani.

Un uomo che da solo e al freddo, come per un quotidiano appuntamento, pregava il suo Dio e sembrava riuscisse ad ascoltarlo.

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