La lapide imbrattata e gli applausi alle Br

La lapide imbrattata e gli applausi alle Br

di Luigi Sardi

Hanno imbrattato, con la scritta Br, quella lapide consegnata dal Presidente della Repubblica alla memoria degli Italiani con i nomi dei Caduti trucidati il 16 marzo del 1978 mentre scortavano Aldo Moro.

Anche quella scritta è destinata a restare nella storia dei giorni tragici di via Fani, come gli applausi frenetici di quegli studenti che, anche a Trento, alla notizia dei cinque uomini dello Stato assassinati e del presidente della Democrazia Cristiana rapito dalle Brigate Rosse, balzarono in piedi al canto di Bandiera Rossa.

Era l’onda lunga e disordinata del Sessantotto che aveva stravolto idee e ideali e la morte di cinque uomini uccisi in una strada della Capitale era, all’improvviso, diventata motivo di giubilo per colpa di una propaganda che sognava una rivoluzione inneggiando a Che Guevara, Mao, Lenin.

Si era gridato «camerata, basco nero, il tuo posto è il cimitero», associando Carabinieri e Polizia di Stato ai fascisti delle armate della Repubblica di Salò e scandendo lo slogan «Vietcong vince perché spara». Perché quella era anche l’epoca della guerra in Viet Nam.

Sono passati quarant’anni. Chissà cosa penseranno oggi, sulla soglia dei sessanta o settanta anni, quanti furono studenti e sulla porta di Palazzo Thun scandivano «Benedetti fascista sei il primo della lista» non sapendo che il Sindaco di Trento era stato il primo, non di una lista, ma dei soldati del Regio Esercito che nella notte dell’8 settembre 1943 si ribellarono ai tedeschi.

E a proposito di tempo passato siamo sull’orlo del mezzo secolo dal giorno della strage di piazza Fontana a Milano che fu una freccia avvelenata nel cuore dello Stato che seminò una cieca ferocia culminata il 16 marzo del 1978 alle 9,02 appunto quando le Brigate Rosse uccisero Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi.

Anche se incisi sulla lapide di via Fani, sono quasi Militi Ignoti, come quello sepolto sull’Altare della Patria, ai piedi della Dea Roma. Nomi fissati sul marmo destinato a durare nel tempo, ma quasi scomparsi dalla memoria.

Se restano nella memoria gli applausi che segnarono la notizia dell’assassino, si prova disagio nel vedere quei terroristi seduti in uno studio televisivo, con l’ombra del sorriso sul viso, ricordare i cinquantacinque giorni che segnarono la storia della Repubblica. A loro è stato lasciato il monopolio della verità, la conduzione della storia; da loro solo impercettibili segni di pentimento.

Dalle loro parole s’evince che erano convinti di essere i nuovi partigiani pronti ad uccidere per raddrizzare il torto della Resistenza tradita perché, se vinta colle le armi dei comunisti nel 1945, venne poi conquistata dalla Democrazia Cristiana uscita vittoriosa dalle urne dell’aprile del 1948.

Per lungo tempo, ad ogni anniversario, gli Anni di Piombo, ma sarebbe meglio chiamarli sanguinosi, vennero raccontati dagli ex terroristi: alla televisione, sulle pagine dei quotidiani, nelle biblioteche, nei salotti borghesi tanto vituperati dagli attori odierni che li avevano combattuti dall’ombra della stella a cinque punte, raccontano la loro verità mentre la vita delle vittime sembrava non avere dignità di essere rammentata.

Senza dimenticare - questo lo scrisse il senatore di Trento Giorgio Postal sulle pagine dell’Adige dell’8 maggio 2011 - «le forsennate campagne di stampa che condannarono a morte il commissario Luigi Calabresi all’indomani di piazza Fontana con l’avvallo di firme tra le più prestigiose fra gli intellettuali di quegli anni.

Da Norberto Bobbio ad Alberto Moravia, da Giorgio Bocca ad Eugenio Scalfari e Paolo Mieli che proprio a Trento, ricordando il centenario di Cesare Battisti disse come il dettato della politica ha modificato la ricostruzione degli eventi storici per via di quegli errori che si propagano, si moltiplicano, non vengono cancellati fino a diventare verità».

Verità da ricucire perché non c’è più nulla da scoprire. Per consegnarla corretta al futuro della Repubblica. Per ricordare che via Fani fu solo un truce omicidio, non un’azione partigiana.

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