Dolomiti, un paesaggio da ricostruire

Dolomiti, un paesaggio da ricostruire

di Annibale Salsa

La catastrofe ambientale che si è abbattuta sull’area dolomitica nella sera del 29 ottobre 2018 ha impresso un duro colpo al contesto paesaggistico del Patrimonio Universale dei Monti Pallidi. Gli schianti di alberi secolari, soprattutto aghifoglie sempre verdi (abeti rossi, abeti bianchi), dall’apparato radicale piuttosto superficiale rispetto ai larici, hanno modificato profondamente quell’immagine di paesaggio complessivo e complesso delle Dolomiti che associa la fascia sommitale rocciosa (i Croz) alle pendici verdi dei boschi, dei prati e dei pascoli. Si tratta di una «unità paesaggistica» unitaria nella sua diversità che non può essere frantumata in tanti segmenti, se non dal punto di vista degli approfondimenti tecnici in chiave geologica, botanica, forestale, estetica.

Sotto il profilo della percezione soggettiva - sia individuale che collettiva - di questo insieme, la montagna dolomitica costituisce un tutt’uno inscindibile la cui rappresentazione richiama alcuni concetti base della psicologia tedesca della percezione (Gestalt Psychologie), ossia di una «totalità strutturata» in forma unitaria. Tuttavia, in rapporto al recente evento catastrofico, vi sono anche da considerare gli aspetti tecnici di carattere forestale relativamente al governo ed alla gestione del bosco in una fase di re-inselvatichimento come l’attuale nelle aree geografiche poco curate. Fase che vede l’avanzata veloce della vegetazione pioniera arbustiva ed arborea, soprattutto in zone a forte spopolamento (Bellunese, Cadore, Friuli).

Tali situazioni consiglierebbero di adottare pratiche forestali volte a favorire la crescita di boschi disetanei anziché coevi. Molti interventi di lettori su «l’Adige» lo hanno bene evidenziato. Tali fenomeni hanno avuto, tuttavia, conseguenze devastanti anche in territori dove la sensibilità e la cura del bosco è sicuramente elevata come in Trentino e nel Sudtirolo. Abbiamo provato grande amarezza e dolore alla vista di profonde ferite nelle zone ad elevato pregio ambientale e paesaggistico della foresta di Paneveggio e di Cadino in Val di Fiemme o di Carezza in Val d’Ega: ferite imputabili alla straordinarietà dell’evento.

Al di fuori di queste aree, sapientemente governate dalla Magnifica Comunità di Fiemme o dalla Regola Feudale di Predazzo e vocate alla pecceta, il fenomeno della «monocoltura da coniferamento» ha dominato incontrastata in molti interventi di rimboschimento, soprattutto nel secolo scorso. È accaduto in tante parti d’Italia e non ha risparmiato neppure il Trentino (boschi di pino nero ma, anche, di abete rosso) su terreni non vocati a tali specie come, ad esempio, l’Altopiano di Brentonico-Monte Altissimo ed in altri territori della fascia periferica prealpina caratterizzati da climi temperato-umidi dove regnano le faggete o, nella fascia più bassa, le latifoglie termofile (carpini, frassini e roverelle).

Anche il contesto paesaggistico, oltre a quello propriamente naturalistico, ne ha risentito in maniera negativa sotto l’aspetto estetico proprio a causa della presenza di boschi fragili, esposti a malattie da parassiti (si vedano i tanti pini neri infestati dalla processionaria), poco resilienti e più facilmente aggredibili da incendi, alluvioni e, ahimè, tempeste di vento.

A proposito del vento - che in molte zone alpine i valligiani chiamano eufemisticamente «aria» - vorrei menzionare una curiosità di carattere etnografico. Nelle vecchie tradizioni di tutto l’arco alpino la figura dell’«uomo selvatico» - in Trentino il Salvanel – possedeva un grande significato simbolico in quanto delimitava il confine fra selvaggità e domesticità, fra uomo e natura, oltre ad insegnare all’uomo l’arte della caseificazione o le proprietà curative delle erbe. Ebbene, una delle sue espressioni più ricorrenti era proprio la seguente: «Quando piove piove, quando nevica nevica, ma quando fa vento fa cattivo tempo!».

Il vento è sempre stato il terrore dei montanari per le conseguenze nefaste sui raccolti, su abitazioni e fienili ma, soprattutto, sui boschi a rischio di schianto e di incendi. Quanto allo stress emotivo che la tempesta ha provocato stravolgendo un paesaggio socialmente condiviso - sia dagli insiders (residenti), sia dagli outsiders (turisti) - esso costituisce un trauma psicologico ed uno shock culturale di difficile elaborazione e ricucitura, un vero e proprio «lutto della perdita» in senso simbolico ed esistenziale. Come elaborare, allora, questo lutto collettivo della rinuncia ad un paesaggio che rappresenta, per le genti dolomitiche, l’orizzonte interiore della propria «Heimat»?

Lo sforzo di ricostruzione di un territorio fragile come il nostro dovrà essere ripagato da una forte e partecipata fiducia in una rinascita, in un convincente rilancio della montagna che sia in grado di correggere gli errori del passato e di riportare al centro i valori della montanità.
Di fronte al carattere spettrale di talune immagini di devastazione si è portati a temere che possa insinuarsi, fra le popolazioni, quella «angoscia territoriale da spaesamento» che inibisce la capacità di riconoscersi empaticamente in un territorio vissuto ed amato. In tal caso verrebbe anche compromessa la capacità di restituzione, da parte degli insider nei confronti degli outsider, di quel «bello da vedere» che si traduce automaticamente in «bello da pensare».

Su tale equazione si fonda l’immaginario dolomitico ed il suo corollario di «valore unico ed eccezionale» che la comunità mondiale gli ha conferito attraverso il riconoscimento di Patrimonio dell’Umanità.

comments powered by Disqus