Gli esami a settembre servono agli studenti

Gli esami a settembre servono agli studenti

di Giovanni Ceschi

Proponendo a mezzo social una riflessione sugli scrutini di fine anno, non avrei immaginato che il tema suscitasse tale interesse da indurre numerosi colleghi, e non solo, a immedesimarsi nel clima evocato da quelle righe. Segno che nella scuola trentina tutto il mondo è paese. Segno che è diffuso il disagio sperimentato dai docenti nell’atto finale dell’anno scolastico.

Perché questo grido di dolore che diventa autoanalisi di gruppo? Perché lo scrutinio è (dovrebbe essere) atto di verità, un guardarsi allo specchio per riflettere all’esterno l’immagine dei nostri studenti. E il giudizio sugli studenti è anche, in automatico, un giudizio su se stessi, sulla scuola, sul sistema tutto.
Valutare è un momento fondamentale in ogni processo di crescita. Non è formativo in sé, ma lo può diventare se l’immagine riflessa in quello specchio non risulta deformata attraverso filtri imposti da interessi e pressioni esterne: se l’immagine cioè riproduce fedelmente l’allievo, gli risulta credibile e autorevole. Specchiandosi in quell’immagine, egli può capire cosa non va, cosa il mondo adulto si aspetti da lui, dove debba spendere le proprie energie per migliorare. Se questo riflesso è abbellito con il fotoritocco non facciamo di sicuro, come insegnanti, un servizio ai nostri studenti. Tutto il viaggio didattico e formativo, al momento degli scrutini, è ormai alle spalle: e s’intende che esso debba avere offerto agli studenti ogni supporto per muoversi nelle conoscenze e nelle competenze disciplinari. In quel momento si tratta di scattare una fotografia, meglio: una panoramica.

Ecco: il sistema delle carenze formative in Trentino è diventato una specie di penoso e pericoloso fotoritocco. Si è cominciato col nascondere le insufficienze dietro un sei rosso, che poi ha perso il rossore per uniformarsi alle sufficienze vere in nome di una malintesa privacy (ma non è, l’atto finale di un anno scolastico o dell’esame di Stato, un atto certificativo e quindi pubblico?); si è proseguito col trasformare il termine debito in un più asettico carenza, illudendo lo studente che a dispetto della profondità delle lacune l’anno scolastico seguente potrà essere affrontato con successo; e per rafforzare tale convinzione si è deciso di assegnare comunque il titolo di promozione a giugno, rendendo semplicemente impossibile - peggio, ininfluente - verificare a settembre se quelle lacune siano colmate o meno. Al momento dell’esame di Stato, si è arrivati ad applicare l’ultimo effetto: fingendo, con una media artefatta dalla condotta e da alcune discipline “facili”, che dietro quel sei complessivo (requisito per l’ammissione) le lacune non esistano più.

Nessuna nostalgia punitiva, si badi: solo la constatazione che la responsabilizzazione al mondo adulto, cui la scuola è chiamata, si fonda sulla certezza di dover rendere conto del proprio agire. Avere trasformato il cosiddetto esame a settembre che permane nel resto d’Italia, pur con limiti e ipocrisie, in un teatrino dell’assurdo senza incidenza sul nuovo anno è un clamoroso errore da correggere al più presto. Il primo approdo del mio ragionamento non è quindi “bocciare di più”, né “dare più carenze”, come se la cosiddetta punizione dovesse risultare formativa in sé. Una caricatura della scuola d’altri tempi quanto più lontana dalla mia idea d’insegnamento. Al contrario, ripristinare la possibilità di appello a settembre, per verificare se il percorso iniziato con il precedente anno scolastico si sia completato durante l’estate, con prospettive di successo per il nuovo. Non per un’esigenza di sterile severità: per rasserenare il clima degli scrutini a giugno, con la consapevolezza che si offrirà agli studenti una possibilità di recupero autentico e non solo formale.

Perché diciamolo, adesso in Trentino funziona così: se a settembre le carenze sono sanate, è tutto a posto; se invece non lo sono, e magari rimangono gravi, si deve far finta che tutto sia a posto e si espone lo studente al fuoco di fila di nuovi argomenti di studio, nuove competenze da acquisire, nuove verifiche. Senza che le precedenti difficoltà siano davvero risolte. E questo fotoritocco diventa dramma personale e familiare, nei casi non rari in cui lo studente si renda conto di trovarsi nel vicolo cieco di un nuovo anno scolastico che impietosamente mette a nudo le sue sfide non superate; principale causa, questa, dei sempre più numerosi abbandoni e cambi d’indirizzo estivi.

La soluzione, ben si comprende, non è quella di spostare l’attenzione sull’ovvietà che la scuola debba valutare qualcosa in più rispetto alle mere conoscenze (come se le competenze non discendessero da un percorso solidamente impostato, e quindi rigoroso). Non è neppure quella di focalizzarsi sul processo di apprendimento, appiattendo sullo sfondo la fase valutativa: si tratta di due momenti diversi, sui quali la responsabilità didattica, formativa ed educativa della scuola è parimenti in gioco. Neppure si tratta di colpevolizzare gli insegnanti, insinuando che se ci sono troppe insufficienze sia necessario farsi qualche domanda. O forse sì: se comunque le carenze abbondano, come avviene in molte scuole, a lungo insanate e infine insanabili, qualche domanda sarà pure il caso di farsela. Ma da parte di chi continua ad affermare che questo sistema sia virtuoso, o persino generi eccellenza.

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