Mancano i medici, ma anche i docenti

Mancano i medici, ma anche i docenti

di Michele Andreaus

Nel mio ultimo editoriale, un paio di mesi fa, azzardai la suggestione di un’Università dell’Euregio, come epilogo di un progressivo avvicinamento dei tre atenei (Trento - Bolzano - Innsbruck) espressione di questo territorio.

L’obiettivo era di giungere ad un ateneo dotato di quella massa critica necessaria per giocare ai massimi livelli in prospettiva futura.
Due mesi fa ancora non si parlava in termini operativi di un’area di medicina nell’Università di Trento, tema sempre aleggiato, ma mai affrontato seriamente. Poi la Giunta Provinciale ha annunciato un progetto con l’ateneo patavino e subito dopo abbiamo saputo che anche il Rettore dell’Università di Trento stava lavorando già da alcuni anni ad un altro progetto, ma del quale nulla è trapelato prima dell’annuncio.

In queste settimane vari sono stati gli interventi pro e contro medicina a Trento. Personalmente nutro varie perplessità, ma vorrei evitare di cadere nel gioco da stadio “medicina sì-medicina no”. Vorrei semmai allargare un po’ la prospettiva, con alcune considerazioni su quello che temo stia avvenendo all’interno del sistema universitario italiano.
Medicina a Trento, o meglio, le motivazioni che stanno alla base di questo progetto, sono in estrema sintesi riconducibili alla considerazione che mancano medici specialisti, e quindi dobbiamo formarceli. In realtà temo che questo vuoto riguardi molte aree dell’accademia italiana, in modo forse meno visibile, dato che l’assenza di medici rappresenta un problema sociale ed è quindi molto evidente.

Nella mia area scientifico-disciplinare (economia aziendale) stiamo oggi assistendo a situazioni inimmaginabili sino a poco tempo fa. Bandi per assegni di ricerca che vanno deserti, concorsi da ricercatore dove spesso i candidati sono molto deboli. È di fatto difficilissimo riportare in Italia i cosiddetti cervelli fuggiti. La stessa situazione si può osservare anche in altre aree. È come se nel sistema universitario italiano si fosse creato un buco generazionale: sotto i trentacinque anni c’è molto poco. Fino ad un paio di anni fa, il percorso dottorato, borsa post-doc, concorso da ricercatore, vedeva sempre la partecipazione di candidati più o meno numerosi, più o meno bravi. Esattamente come succede all’estero. Oggi qui c’è il deserto… Questa situazione è maturata negli ultimi anni, ma è diventata evidente negli ultimi mesi, quando tra turn-over e risorse aggiuntive, il sistema universitario ha ricominciato a bandire posti ed è risuonato l’eco del vuoto…

Ma cosa sta succedendo quindi in Italia? Sono molteplici le cause di questo fenomeno. Innanzitutto un Paese che, al di là di qualche slogan, della ricerca non interessa un granché. Per la politica, e talvolta per una parte del mondo imprenditoriale, essere istruiti e avere delle competenze tecniche, sembra quasi un impiccio. Di conseguenza, le risorse per la ricerca non sono la priorità del Paese, e questo è un punto.
In secondo luogo, il sistema universitario italiano viene spesso percepito come poco affidabile: ci sono ottimi gruppi di ricerca, ottimi ricercatori, ma il sistema appare spesso marcio, o comunque non sempre in grado di fare emergere chi effettivamente merita e quindi all’estero viene percepito quantomeno inaffidabile.

Se a questo si aggiunge che gli stipendi sono comparativamente più bassi, e di molto, anche in termini reali, con i Paesi europei ed extra-europei, con i quali ci confrontiamo, ecco che molti giovani bravi, dopo aver provato qualche concorso, fanno le valigie e se ne vanno. Nella mia area conosco ottimi ricercatori ovunque, persone che l’Italia ha formato, ma ai quali poi il sistema universitario ha sbattuto la porta in faccia. E quasi tutti non sono andati contenti, se avessero potuto, sarebbero rimasti. Invece, magari dopo aver partecipato ad una decina di concorsi, dove il merito era nascosto dalla fedeltà, hanno preso e sono andati in Australia, in Regno Unito, in Canada, in Nuova Zelanda, ma anche in Spagna, Portogallo, Norvegia, Svezia, paesi del Golfo. E sono persone che tengono in piedi aree importanti negli atenei dove ora lavorano, che vincono finanziamenti ERC e progetti internazionali. Altri giovani sono invece semplicemente usciti dal sistema universitario e anche questi non ritorneranno indietro.

E questo è un primo fenomeno che screma un bel po’ i futuri accademici, che vanno formati, fatti crescere, coltivati, richiedono continui investimenti, non solo finanziari, ma anche e soprattutto di spazi per crescere, per poter sbagliare, per costruirsi le loro reti di ricerca e per poter coltivare i loro filoni, per ritagliarsi uno spazio loro. Insomma, per diventare ricercatori dotati di una capacità di pensiero autonoma, che è funzione innanzitutto dell’autorevolezza. Restano quindi persone talvolta brave e bravine, ma innanzitutto fedeli, che non creano problemi. Dato l’assottigliamento del bacino dal quale pescare, i migliori tra i fedeli sono i primi che trovano un posto, e lo trovano nei loro atenei. In questi ultimi anni, complice un certo turn-over, concorsi ne sono stati fatti non pochi, quindi quasi tutte queste persone si sono accasate nei loro atenei di origine. Se andiamo a vedere, in molti concorsi il vincitore non prende servizio, in quanto nel frattempo ha preso posto in un altro ateneo.

Alla fine rimangono sul mercato i ricercatori più deboli, che talvolta trovano un posto perché sono gli unici candidati che arrivano in fondo al concorso e non vengono chiamati da altri atenei. Persone che talvolta non sono in grado di giocare la loro partita sulla ricerca internazionale, quella che conta veramente, e in aula fan disastri.
Perché queste considerazioni? Perché se ad esse aggiungiamo le previsioni circa quello che potrà derivare dal nostro andamento demografico, la situazione è preoccupante. Tra quindici anni, avremo università vuote, semplicemente perché avremo sempre meno studenti.

È vero, potremo pescare dall’estero, ma per fare questo bisogna essere attrattivi, e l’attrazione non è basata sul bel portale e sulla bella narrazione, ma sui fatti: curriculum scientifico dei docenti, progetti internazionali vinti, pubblicazioni su riviste scientifiche riconosciute, reti internazionali, stipendio dei laureati una volta inseriti nel mondo del lavoro. Tutto questo richiede docenti e ricercatori che parlano questo linguaggio e che non si improvvisano dalla sera alla mattina. Ma la maggior parte di questi, vivono e lavorano in giro per il mondo e, a certe condizioni, non ritornano.

In Italia, vi sono docenti che occupano posti di responsabilità e magari siedono anche in commissioni di valutazione, che parlano della ricerca esattamente come Salgari parlava dei mari della Malaysia, senza essersi mai mosso dall’Italia.

Quando il sistema si accorgerà di questa situazione, temo sarà troppo tardi. È ora, che ci sono ancora margini di manovra, che si dovrebbero prendere quelle decisioni che potranno (potrebbero) dare frutti interessanti nel lungo periodo. E penso che nelle università del futuro, la massa critica sarà necessaria per creare quell’autorevolezza che serve per attrarre gli studenti migliori, i dottorandi, i ricercatori, e i docenti, anche da paesi emergenti.

Medicina a Trento è una piccola cosa rispetto a questi scenari, soprattutto se il progetto risponde più a logiche di bottega e a rancori personali, che a visioni di ampio respiro. Se mancano medici, potremmo scoprire che mancano anche, e forse soprattutto, medici che insegnano agli studenti a diventare bravi medici.

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