Lo spirito libero di Francesco Dal Bosco

Lo spirito libero di Francesco Dal Bosco

di Alessandro Tamburini

Da un anno Francesco Dal Bosco non c’è più e ci manca sempre tanto, come regista, e come uomo di cultura nel senso più pieno del termine. Né si placa il dolore per la sua scomparsa in chi ha avuto il privilegio di averlo come amico. Artista poliedrico, autore di un corpus di opere ancora in larga parte sconosciuto ai più.

Lavorava sempre in base alla propria libera e naturale ispirazione, posponendo o ignorando gli aspetti di natura economica.
Lo dimostra fra l’altro la sua unica pubblicazione di narrativa, un volumetto di racconti, genere che non ha mai riscosso la simpatia degli editori, e che però gli valse l’apprezzamento di stimati critici, così come la costanza con cui scriveva testi in forma poetica, il cui riscontro in termini commerciali è come ben sappiamo ancora inferiore. Ma anche come regista, l’attività che maggiormente lo ha assorbito, operava scelte non convenzionali, in spregio delle convenienze, pagandone spesso un prezzo salatissimo. Quando ormai parecchi anni fa, sulla spinta di una sua formidabile sceneggiatura ebbe l’opportunità di realizzare il film «Commesso viaggiatore», destinato a circolare nelle sale cinematografiche, fece la scelta di un severo bianco e nero che certo non dovette rallegrare la Produzione, né facilitargli i progetti successivi.

Nella realizzazione di Video, forma a cui ricorreva per vocazione e anche perché gli lasciava tutta la libertà che desiderava, sperimentava, sovvertiva i canoni prestabiliti, faceva confluire materiali e procedimenti diversi in un suo personalissimo linguaggio, che richiedeva allo spettatore notevole impegno, salvo poi ripagarlo generosamente.
Spesso era il soggetto stesso a rendere i suoi film ostici e poco accattivanti, oltre che perturbanti, e a questo riguardo penso soprattutto ad “Apocalisse”, in cui i ventidue capitoli dell’Apocalisse di Giovanni vengono letti o recitati da altrettante figure di emarginati, carcerati, immigrati, malati di AIDS, con un esito che è quanto di più lontano si possa mmaginare dall’intrattenimento, dotato di una forza che lo rende memorabile. Ma un linguaggio rigoroso e scabro caratterizza tutte le sue opere, anche quelle che hanno avuto il maggior successo, come «La camera da letto», in cui fece recitare per intero al poeta Atttilio Bertolucci il suo omonimo poema in versi. O come «Il Centro», film documentario trasmesso e replicato sulle Reti Rai, che in una serrata serie di interviste riesce a rappresentare in modo esemplare uno dei “non luoghi” della nostra epoca e delle persone che lo frequentano.

La capacità di guardare dentro le persone, i loro volti spesso in primo piano, e di rivelare la vita che c’è dietro, di far sentire le loro voci interiori: mi è sembrato sempre questo il propulsore delle opere di Dal Bosco, anche quando vi assumeva un ruolo di testimone partecipe, come in quella su Jackson Pollock, oppure in «Il Coro» e in «L’ora azzurra dell’ombra», dedicati rispettivamente al Coro della Sat e alla poetessa Nedda Falzolgher. Da lì partono rivelazioni, illuminazioni, bordate di emozioni fortissime, che lasciano tracce indelebili.
Il carattere orgoglioso che gli vietava di piegarsi a imposizioni o compromessi gli è costato ancora più caro nel contesto italico, in cui vige la logica delle consorterie e del do ut des piuttosto che quella del merito, come è successo quando proprio il vivo apprezzamento riscosso con «Il Coro» gli aveva aperto la strada per altri lavori con la stessa Committenza, che però gli ha poi posto dei condizionamenti per lui inaccettabili. E la propria diversità, direi quasi una primigenia alterità rispetto a chi siede nelle stanze dove si spartiscono denari e favori, l’ha pagata fino all’ultimo, con l’arenarsi del progetto in cui aveva speso tutto se stesso negli ultimi anni.

Francesco era insofferente verso ogni banalità e mediocrità, intransigente, idiosincratico. I suoi giudizi erano netti, spesso severi e spietati. Quando scrivevo pensavo a lui, e adesso parlo dell’amico. Penso ancora a lui, mentre insisto nel lavoro su una pagina, una frase, immaginando di fargliele leggere per avere una sua valutazione, che proprio sapendolo così esigente ho sempre reputato fra le poche davvero affidabili.

Ma da quando non c’è più, tante volte mi capita anche davanti a una notizia importante, a un evento che pone degli interrogativi, di domandarmi: Come avrebbe reagito? Cosa avrebbe detto Francesco?
La sua intolleranza, istintiva prima che culturale o politica, verso qualunque forma di violenza, sopraffazione, discriminazione, faceva di lui una coscienza critica viva, spesso scomoda, di cui la città di Trento avrebbe ragione di avvertire oggi la mancanza, e si manifestava anche nella vita quotidiana, come accadde in un episodio che non dimentico e voglio riportare. Siamo seduti a un tavolino all’aperto, in una piazzetta del centro, quando si avvicina una giovane africana che porta un bimbo piccolo imbragato sulla schiena. E quando un cliente da un tavolo vicino comincia ad apostrofarla con volgarità come «Ma tu fai parte di un’organizzazione? Vi forniscono anche il bambino per andare a chiedere soldi in giro?», Francesco non ce la fa a stare zitto, e sbotta «Ma la lasci stare! Non le dia niente, se non vuole, ma non si permetta di insultarla!». Senza perdere la calma, in tono vibrante di sdegno ma pacato, da quel gentiluomo che è sempre stato, come lo ha ben definito un suo caro amico nel triste giorno delle esequie.

Credo si possa dire, come solo parziale conclusione, che Francesco Dal Bosco ha dato al mondo del cinema, e anche alla città di Trento, molto più di quanto ne abbia ricevuto in cambio. L’auspicio è che la ricorrenza di questo primo anniversario della sua scomparsa sia di sprone per un’iniziativa di recupero e riproposizione di tutta la sua opera, che sia adeguata al suo alto valore, anche col necessario impegno dell’Ente Pubblico.
Perché questa terra che tanto cura il proprio patrimonio di castelli e rifugi alpini, meleti e piste da sci, ha il dovere di preservare anche un’altra tipologia di valori identitari, certo meno visibili e redditizi, ma proprio per questo preziosi e irrinunciabili.

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