Giornata della Memoria, la storia di Eva

Giornata della Memoria, la storia di Eva

di Renzo Fracalossi

Comprendere oggi il dramma degli ebrei nella Venezia Tridentina di quegli anni è compito non facile. Un aiuto straordinario giunge da alcuni lavori di ricerca, fra i quali spiccano quelli di Maria Luisa Crosina con il suo prezioso volume: «Le storie ritrovate», edito dal Museo Storico di Trento nel 1995 e di Cinzia Villani: «Ebrei fra leggi razziste e deportazione».

Un volume edito dalla Società di Studi Trentini di Scienze Storiche nel 1996, ai quali queste note sono profondamente debitrici.
Forse però una vicenda umana di quella tragedia racchiude in sé milioni di altre consimili storie concluse, quasi tutte, nel grasso fumo di Birkenau.

Nel 1902, nasce a Vienna Eva Hass, figlia di Ignaz e di Franziska Hoffmann, proprietari di una confetteria in Lilienbrungasse nella «Leopoldstadt», cioè nel ghetto ebraico della capitale viennese. Passano gli anni ed Eva cresce diventando una donna, oltrechè bella, intelligente, sensibile e molto colta. Dopo gli studi, intraprende con successo la carriera del giornalismo e scrive sulla principali testate fra le quali il «Wiener Tagblatt», padroneggiando, fra l’altro, più lingue straniere e fra esse, con competenza, l’italiano. Dopo il fallimento del suo matrimonio con il pittore ebreo Otto Flatter che emigra in Gran Bretagna, Eva si trova ad allevare da sola il figlio Peter, più tardi inviato al padre in Inghilterra quando in Austria, ormai annessa al Reich germanico, inizia la persecuzione antisemita più radicale.

A quel punto, Eva chiede un visto di soggiorno in Italia, tappa intermedia nei suoi programmi, per un definitivo trasferimento in Inghilterra, vicina al figlio. Ottenuto il visto, anche in virtù di influenti interessamenti, arriva a Torino nel 1939 ed alloggia presso una sua cara amica, Käthe Perlberg anch’ella ebrea austriaca ma coniugata con un italiano, il dott. Caliò. Purtroppo, l’entrata in vigore delle disposizioni razziali contro gli ebrei stranieri impone anche ad Eva il “foglio di via obbligatorio” entro il 30 gennaio 1940.
Lei tenta in ogni modo di ottenere un visto d’ingresso in Gran Bretagna, ma nel frattempo scoppia la guerra che vede Italia e Regno Unito su fronti opposti: il sogno di raggiungere Peter svanisce nel caos del conflitto. E adesso, cosa fare?

Costretta dagli eventi, Eva segue la famiglia della sua amica Käthe ed è con loro che giunge, nell’estate del ’40, prima in Val Sarentino e poi a Rizzolaga, frazione di Baselga di Pinè in provincia di Trento e da lì, infine, a Trento, dove conduce una vita assai modesta e ritirata.
«Poichè si trova nell’impossibilità di lasciare il regno, in applicazione di analoghi provvedimenti presi in confronto degli ebrei stranieri, si propone che venga internata sia pure in Comune di questa Provincia, escluso il capoluogo e la zona mistilingue». Così scrive il Prefetto di Trento, disponendo l’internamento di Eva Haas inizialmente a Riva del Garda e poi ad Arco. Ormai le risorse economiche della donna si sono prosciugate e nel settembre del 1942 è costretta a chiedere quel sussidio riservato agli internati indigenti, sussidio che fino ad oggi ha potuto rifiutare, grazie alle sovvenzioni di sua madre da Vienna, di sua cognata dalla Svizzera e di una parente in Turchia, che ora però non possono più aiutarla.

Ad Arco, la donna conduce una vita riservatissima, pur contando sull’amicizia del dott. Crosina e del podestà Carloni, ma non basta.
La sera del 21 dicembre 1943, Eva Hass Flatter viene arrestata a Chiarano d’Arco dalle SS, al pari di altri ebrei residenti in città, come Leo Zelikowski e Arturo Cassin. Tradotta a Trento, viene provvisoriamente incarcerata nelle prigioni di via Pilati, pur potendo ricevere qualche visita degli amici di Arco, che la trovano ormai rassegnata alla sorte riservata a tutti gli ebrei in mano dei nazisti.
In un estremo tentativo di salvarsi, Eva viene convinta ad abiurare la fede ebraica. Non serve a nulla. Viene deportata a Fossoli, campo di transito vicino a Carpi in Emilia Romagna e da lì ad Auschwitz, dove giunge il 26 febbraio 1944 con lo stesso convoglio che trasporta anche Primo Levi. È notte fonda, in quella gelida radura polacca. I riflettori solcano la neve ed illuminano un’immensa distesa di baracche recintate da filo spinato.

Quando gli ebrei scendono dal treno, i tedeschi indicano, alternativamente, la direzione di destra o di sinistra a donne, uomini, bambini e vecchi distrutti e terrorizzati. Alcuni vanno a piedi, altri salgono su autocarri che sono in attesa. Chi sale si crede più fortunato degli altri, ma è un illusione. Sono attesi da docce che non bagnano, ma uccidono. Eva evapora così, in una fredda notte polacca, lasciando di sé solo un ricordo pallido ed un sorriso su una fotografia. Come lei, quasi tutti gli ebrei del Trentino, dell’Alto Adige e del Bellunese, insieme ad altri sei milioni, colpevoli solo di essere figli di David, anzichè di Odino.
Ricordare oggi Eva Haas significa ricordarli tutti e rammentare dove conduce l’odio, mentre lente si alzano dalla terra dei Sommersi le parole dello «Shemà Israel...».

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