Noi e il virus: una paura incontrollabile

Noi e il virus: una paura incontrollabile

di Alessandro Tamburini

Il Paese più popoloso del mondo e in seguito altri, con l’Italia fra i primi e più colpiti, si trovano oggi a fronteggiare un’emergenza sanitaria la cui dimensione e gravità non sono ancora chiari, ed è anzitutto questo a suscitare un allarme che ha già assunto risvolti di psicosi collettiva.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la diffusione del coronavirus in Italia come epidemia, tuttavia non esclude che possa degenerare in pandemia.

Le Autorità continuano a ribadire che vi sono due soli focolai, in Lombardia e in Veneto, e che sono stati efficacemente circoscritti ma di ora in ora vengono segnalati nuovi casi anche altrove.

Ed è molto verosimile che il fenomeno non sia destinato ad arrestarsi.
Nessuno sa ancora spiegare perché da noi i contagiati si contino a centinaia mentre nel resto d’Europa in poche unità: siamo stati più bravi e solerti nel far emergere una realtà che a breve deflagrerà anche in altri Paesi, cosa che non si può certo augurargli, o invece per un infausto capriccio della sorte proprio l’Italia è stata presa di mira?
L’incertezza rende ancora più difficile per una Comunità, come per ogni singolo individuo, stabilire un’attendibile soglia di rischio, e quindi il confine che separa opportuni provvedimenti da reazioni irrazionali e immotivate. Un problema simile, del resto, si pone da anni anche riguardo all’emergenza climatica, denunciata e dimostrata dagli scienziati ma che ancora vede fra i negazionisti il capo della massima potenza mondiale.

Certo è che si tocca con mano, nei media, sui social o anche solo nella cerchia di amici e conoscenti, un più o meno esplicitato timore, amplificato dalla quantità e dalla non facile accertabilità delle fonti di informazione. E c’è poi la suggestione di certe immagini, dal deserto spettrale delle strade nelle zone messe in quarantena agli scaffali vuoti dei supermarket presi d’assalto da chi cede al panico e si prepara al peggio. C’è la valenza simbolica che assume la chiusura di luoghi come il Duomo o la Scala di Milano. C’è il sovvertimento dell’ordine del giorno di tanta gente, con la serrata di scuole e aziende, discoteche, stadi e chiese.

In un crescente numero di persone scatta così l’istinto dell’animale che fiuta il pericolo, aleggia e a momenti già tracima una paura incontrollata, ed è l’intrinseca condizione di precarietà e fragilità dell’essere umano che viene di colpo messa a nudo.

Emerge con lacerante evidenza quanto sia presuntuosa ed effimera la sicurezza che vorremmo ci fosse garantita in quanto abitanti dell’Occidente tecnologico, dove l’alto tasso di sviluppo, ma senza un equivalente progresso, ha costruito il dogma della salute a ogni costo, il culto della prestanza fisica, l’orrore nei confronti della malattia per cui, come confermano i rapporti sanitari, anche in tempi non sospetti si va dal medico o al Pronto Soccorso anche solo per qualche linea di febbre, si verifica un consumo abnorme di farmaci e un dannoso abuso di antibiotici. Il ritmo frenetico con cui la gente si affanna, nel lavoro o nella ricerca di divertimento, fa sì che anche una semplice influenza si trasformi in un dramma, come quando capita di sentir dire «Ho troppe cose da fare e ammalarmi sarebbe una tragedia!». Le ineludibili realtà della malattia e della morte vengono mascherate o rimosse in nome di un delirio di onnipotenza, un’illusione di immortalità, e anche così si spiegano lo smarrimento, l’incapacità nervosa ed emotiva di affrontare la situazione che stiamo vivendo.

Viene naturale, come per altre anche recenti vicende analoghe, fare riferimento alla storia passata, alle pestilenze che falcidiarono la popolazione europea, raccontate nelle pagine del «Decameron» di Boccaccio o dal Manzoni nei «Promessi sposi». Oggi che non sono più considerate punizioni divine, come è giusto che sia ci si appella allo spirito di solidarietà, lo stesso che anche in tempi non lontani ha saputo scaturire nelle realtà colpite da calamità naturali, come alluvioni o terremoti. Uno stato di ansia e di fiato sospeso è stato vissuto più volte proprio proprio nei territori che oggi sono diventati “zona rossa”, quando la furia del Po minacciava case e raccolti. Per che ora è previsto il temuto picco della piena? Fino a che livello potranno reggere argini e ponti?

Ma questa volta si affaccia un rischio nuovo, cioè che invece di un sentimento di fratellanza («di che reggimento siete/fratelli», scriveva il fante Ungaretti Giuseppe nella trincea del Carso) la fobia del contagio spinga alla diffidenza e alla chiusura verso l’altro, il diverso, l’untore, quello venuto da fuori, ancora di più di quanto in seguito a più gravi drammi epocali sta già avvenendo in Italia e in Europa.
Altra benzina sul fuoco della xenofobia, dei respingimenti, di chi vuole alzare muri e chiudere frontiere, anche se al momento sono gli italiani a rischiare di vedersi respinti o minacciati di quarantena quando approdano in un altro Paese.

In ultimo, se nei Paesi più ricchi il Sistema Sanitario sembra offrire qualche garanzia di contenimento del virus, una paura stavolta più che motivata nasce dal pensiero di cosa accadrebbe se esso dovesse propagarsi in quelli africani, con effetti di inimmaginabile devastazione, e per di più con un ulteriore pretesto che verrebbe offerto alla parte sovranista dell’Europa, per stringere ancora di più le sbarre che tengono rinchiuse quelle popolazioni nella realtà di miseria, malattie e guerre a cui sono condannate già oggi.

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