Così cambiamo tra ansia e paura

Così cambiamo tra ansia e paura

di Alessandro Tamburini

L’Italia è in stato di guerra contro il coronavirus e ognuno è chiamato a fare la propria parte, ma nel contempo deve difendersi da paura e ansia, nemici interiori che possono rivelarsi non meno insidiosi.

Dire che la salute è la cosa più importante poteva sembrare fino a ieri un luogo comune, di cui solo quando ci sentiamo direttamente minacciati riconosciamo la verità suprema e assoluta. La libertà è un altro valore primario, e anche di questo diventiamo davvero consapevoli quando, come appare oggi indispensabile per il bene comune, non siamo più liberi di muoverci, per lavoro o per svago, a volte nemmeno per riunirci alle persone che ci sono più care: l’amico, il partner, il figlio che studia in un altro Paese divenuto di colpo irraggiungibile, e certo si tratta di un’aggravante fra le più dolorose.

Smarrimento e incertezza, l’inquietudine che può sconfinare in angoscia vera e propria, sono stati d’animo in cui l’individuo trova nelle manifestazioni d’affetto coi propri simili la più naturale forma di conforto, e invece proprio di questo siamo privati, diventa proibito dal momento che il pericolo insito nel contatto ne annulla il possibile beneficio. La piccola Comunità della casa e della famiglia resta l’ultimo baluardo di difesa, ma non è condizione di tutti e per chi vive da solo l’emergenza solitudine può assumere risvolti anche peggiori.
La paura rinsalda il legame fra le persone che si trovano a combattere un comune e riconoscibile nemico, e invece divide quando l’avversario è subdolo e invisibile come quello che abbiamo oggi di fronte.

Seguiamo ogni giorno, alla stregua di un bollettino di guerra, il numero di contagi e vittime, ma l’allerta aumenta davanti a una serie di soglie psicologiche che risultano emotivamente decisive: il primo contagiato e poi il primo decesso nel luogo in cui vivi, fino al timore che venga colpita una persona che conosci bene, che incontri spesso, cosa che di colpo renderebbe la minaccia più vicina. Nelle zone in cui si sono accesi i primi e più virulenti focolai del coronavirus queste soglie sono già state ampiamente varcate, ma in molte altre no, o non ancora, e ovunque in diverso grado trova spazio un sentimento di timore e diffidenza l’uno verso l’altro.

L’amico che telefona per accertarsi che tu stia bene è certamente mosso da affetto e sincero interesse nei tuoi confronti, ma anche da una nemmeno troppo sottesa ricerca di personale rassicurazione, dato che vi siete visti fino a ieri. Ti sorge il dubbio che per lo stesso motivo un altro ti domandi con finta noncuranza dove sei stato e chi hai incontrato negli ultimi giorni. Si allarga un campo minato di supposizioni, ipotesi e sospetti.

Il telefono diventa lo strumento di comunicazione principale e la conversazione è ancora una volta egemonizzata dal virus. Parlarne è inevitabile e in prima battuta aiuta a scaricare la tensione, ma a lungo andare rischia di alimentare una dinamica ossessiva. Seguire le notizie trasmesse dai media  sembra irrinunciabile, anche per tenersi aggiornati sui provvedimenti emessi dalle Autorità che si fanno sempre più restrittivi, ma dopo un po’ ti accorgi che crea una sorta di dipendenza intossicante.  

Nelle lunghe giornate trascorse fra le mura domestiche ciascuno ha tempo e modo di riflettere su come questa questa crisi epocale abbia cambiato il proprio sguardo sulle cose. Quelle che ieri parevano urgenze inderogabili sono divenute insignificanti. Le contrarietà che bastavano a guastarti l’umore di una giornata ti appaiono inezie. Impegni e obiettivi prima reputati irrinuciabili sono rinviati o cancellati in un attimo, insieme al tempo e agli sforzi profusi per realizzarli. Tutto viene ridimensionato, relativizzato, in base a un meccanismo che può a sua volta apparire ovvio, reso meno drammatico per il fatto che colpisce tutti, ma ti puoi anche ritrovare stordito e sgomento dal moltiplicarsi di sottrazioni, impossibilità, vuoti che in cui la tua stessa identità esce indebolita.

Una sorte analoga subisce la vita sociale, anche nei suoi riti più consolidati. La Fiera Internazionale, l’atteso spettacolo, i tornei calcistici che accendevano spropositate passioni, vengono spazzati via come fuscelli da una corrente a cui nemmeno i giganteschi capitali investiti offrono più il minimo argine. E quando ti aggiri per il supermercato semideserto, fra clienti che sfoggiano la mascherina d’ordinanza, in mancanza della quale altri si tirano la sciarpa fin sugli occhi, con la voce asettica che dall’altoparlante ripete a intervalli regolari le norme di sicurezza, ti viene davvero da domandarti se per caso sei caduto senza accorgertene in una realtà parallela, o dentro un film di quelli che hai sempre evitato di vedere.

Ma mentre cerchi di costruire strategie di sopravvivenza fisica e psichica per un’emergenza che pare destinata a metterci alle corde per mesi, ti viene anche da pensare a cosa accadrà, a cosa ne resterà quando come dobbiamo sperare ce la saremo lasciata alle spalle. Ti succede quando soffri per qualche malanno, quando anche una banale influenza ti mette a letto tre giorni, di dirti quanto stavi bene prima, di chiedere e desiderare solo quello. Però appena hai riacquistato l’agognata prestanza fisica, subito non ti basta più, vuoi altro, sei pronto a riprendere una corsa spesso affannosa verso la meta che ti sembra irrinunciabile raggiungere.

C’è da augurarsi che stavolta non sarà così, che questa traumatica vicenda non venga archiviata solo come un brutto sogno, al risveglio dal quale tutto riprende uguale a prima, ma che quanti l’hanno vissuta riescano a trasformarla in Esperienza. Sappiano uscirne meno arroganti e pretenziosi, più consapevoli della propria umana condizione di debolezza, quella che non ha il lusso di potersi dimenticare tanta umanità per cui l’emergenza di epidemie, guerre e fame, è una perenne e ineluttabile condizione di vita.

In caso contrario, rischia di rivelarsi miope e vuoto anche l’incoraggiante slogan “Andrà tutto bene” che ha cominciato a circolare nelle ultime ore.

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