Sentirsi «sicuri da morire»

Sentirsi «sicuri da morire»

di Annibale Salsa

Tra i libri più importanti della recente letteratura antropologica c’è un saggio dell’indiano Arjun Appadurai dal titolo: «Sicuri da morire». L’autore si riferisce alla violenza in relazione al mondo globalizzato e, quindi, non ha niente a che fare con le pandemie.

Ma l’abbinamento del tema della sicurezza con quello della morte può essere esteso a molti aspetti della contemporaneità. Nel mio recente articolo sulla società securitaria osservavo che, per una società fondata sulla cultura scientifica del rischio calcolato, diventa uno scandalo dover dichiarare la propria impotenza difronte al diffondersi di un virus di cui non si conoscono i rimedi per neutralizzarlo. La Sars, l’aviaria, la suina, perfino l’Ebola, ci avevano toccato marginalmente rafforzandoci nella convinzione che si trattasse di epidemie da “terzo mondo”. Fino allo scorso febbraio pensavamo che questi flagelli non riguardassero i Paesi avanzati dell’Occidente, tuttalpiù che si trattasse di fenomeni circoscrivibili entro le aree geografiche sottosviluppate. Tanto meno pensavamo di aver a che fare con scenari che, pur tenendo conto dei necessari “distinguo” di ordine storico e sociale, ci riportassero a situazioni abbastanza simili a quelle descritte dal Manzoni riguardo all’epidemia di peste nella Milano del 1630.

Questa circostanza mi ha spinto a riprendere in mano «I Promessi sposi» che, sui banchi di scuola, veniva letto dagli studenti con una certa noia per quel carattere pedagogico-moralistico che l’opera incarnava. In particolare risultano istruttivi, ai fini di una lettura rivisitata con gli occhi di oggi, i capitoli XXXI e XXXII dedicati alla diffusione del contagio nella capitale lombarda. Anche i successivi capitoli sono comunque attraversati dallo spettro della morte in quanto l’epidemia non si risolse in poco tempo. In questi giorni certe letture assumono significati fino a pochi mesi fa inimmaginabili. I riferimenti storici, nella rielaborazione manzoniana, non mancano certo. Sono le cronache dei medici milanesi Alessandro Tadino e Giuseppe Ripamonti. Importante diventa quindi individuare talune analogie fra le molte differenze che separano l’allora dall’oggi. Anzitutto le modalità e i tempi del contagio. Tutto inizia tra il 20 e il 22 ottobre del 1629 allorquando truppe mercenarie provenienti dalla Svevia e dirette in Italia per prendere parte alla guerra di successione al Ducato di Mantova, passano attraverso le Alpi della Svizzera e dei Grigioni. Superati i passi della Rezia il borgo di Chiavenna anticipa quello che succederà poco dopo nel lecchese e nella città ambrosiana.

Le popolazioni locali erano terrorizzate a causa delle efferatezze della soldataglia che metteva a ferro e fuoco tutto quello che incontrava, abbandonandosi a sistematiche ruberie. Va chiarito che il bottino sottratto con la violenza costituiva il “legittimo” compenso riconosciuto dai reclutatori a questi mercenari. Il fenomeno del mercenariato era molto diffuso in quegli anni nei Cantoni della Svizzera e in alcune provincie del Sacro Romano Impero Germanico. La forma più frequente di reclutamento vedeva interessati alcuni servi agricoli che, alla luce della legge germanica del “maggiorascato”, erano esclusi dall’eredità dell’azienda agricola indivisa. Qualcosa di simile al “maso chiuso” tirolese. Alcuni di questi servi della terra (Landsknecht, da cui “Lanzichenecchi”), piuttosto che sottostare alla consuetudine di sottomissione al primogenito, preferivano farsi reclutare come mercenari. Anche gli Asburgo li utilizzarono a difesa dei «Vorlanden», ossia dei territori originari svevi del casato, in funzione anti-svizzera.

Ma mentre il mercenariato svizzero disponeva di inquadramenti definiti presso le potenze straniere, quello svevo era piuttosto sregolato. Truppe di lanzichenecchi li troviamo impegnate in Trentino durante la battaglia di Calliano del 1487. A metà Seicento gravi carestie furono la conseguenza di profonde crisi economiche. Nei territori alpini il brusco cambiamento climatico, noto come «piccola età glaciale», inflisse un duro colpo all’agricoltura di montagna rendendo difficile la coltivazione dei cereali in quota e riducendo le difese immunitarie delle popolazioni che subirono la progressiva diffusione della cosiddetta «polmonite delle Alpi». In questo quadro storico-economico si generano le premesse per la diffusione dell’epidemia. Ma veniamo alla cronaca milanese di quegli anni. Dopo i primi episodi di contagio di fine ottobre, la situazione andò aggravandosi in maniera esponenziale.

Dapprima venne sottovalutata o, nel migliore dei casi, assimilata ad una delle tante patologie stagionali (influenza di stagione, qualcuno ha sentenziato di recente!). Con l’inizio del nuovo anno 1630 il fenomeno diventò incontenibile. Allora non si disponeva di conoscenze scientifico-epidemiologiche adeguate e il contagio venne dapprima contestato e successivamente rimosso. Anche allora, alla fine di marzo, si registrarono le punte più elevate di diffusione del contagio e della mortalità. A Milano si passò dai 500 morti al giorno fino a 2.500. Il lazzaretto, struttura di ricovero, non era più in grado di ricevere pazienti e mancavano i medici e gli infermieri al punto che si dovette ricorrere ai religiosi dei conventi per supplire alla mancanza o al richiamo di sanitari ai quali venivano offerti congrui compensi. Come insegna la storia antica e l’antropologia culturale, quando non si conoscono le cause di un evento catastrofico scatta la ricerca del capro espiatorio da immolare.

Nell’interpretazione moderna dell’antropologa Mary Douglas si tratta dell’effetto «blaming», ossia del meccanismo di attribuzione di colpa. Nella Milano del Seicento la ricerca dell’untore rispecchiava perfettamente questo meccanismo. A parte queste abissali differenze, troviamo però altre analogie con il nostro tempo. Ad esempio la chiusura della città su ordinanza del tribunale di sanità - una “zona rossa” ante litteram - a tutti coloro che arrivavano dal contado. Oppure la richiesta, da parte dell’autorità sanitaria e politica, di esibire una certificazione all’ingresso delle porte della città. O, ancora, l’istanza al Governatore affinché venissero sospese le tasse e l’erario assumesse in proprio le spese necessarie per fronteggiare la catastrofe.

Circa le cause prime del formarsi della malattia si parlava di serpenti e di altri animali (nel repertorio mancavano il pipistrello e il pangolino!). Sulla geografia epidemiologica, oltre a Milano (186.000 morti su 250.000 abitanti), balzano all’attenzione città come Cremona, Piacenza, Parma, Bergamo, Brescia. Anche allora si pensava che il caldo dell’estate avrebbe ridotto drasticamente il contagio ma, proprio in Agosto, toccò le punte più elevate. Nell’autunno seguente la diffusione si ridusse per ripresentarsi con altrettanta virulenza nell’anno successivo 1631. Leggendo queste notizie e ascoltando i nostri moderni esperti una certa apprensione esiste. Tuttavia, non resta che augurarsi che le differenze prevalgano sulle analogie e la scienza riesca ad aver ragione delle sue certezze senza farci sentire «sicuri da morire».

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