Il distanziamento, un fatto culturale

Il distanziamento, un fatto culturale

di Annibale Salsa

Da quando è iniziata l’emergenza sanitaria si è incominciato a parlare di “distanziamento sociale” quale misura di prevenzione nei confronti del contagio. Fin da subito, vedendo affiancare alla parola “distanziamento” l’aggettivo “sociale”, ho avuto un forte senso di disorientamento.
Se le parole hanno un significato sostanziale e non sono semplici nomi allora occorre fare qualche distinguo.

In alcuni miei recenti interventi, relativi all’emergenza Covid-19, avevo sostenuto che sarebbe stato preferibile usare l’espressione “distanziamento fisico” invece che «distanziamento sociale”. Senonché proprio lo scorso 9 maggio ho avuto la conferma, nell’intervista al Telegiornale regionale della sera, che anche il professor Dario Fortin dell’Università di Trento è del mio stesso parere. Questo uso lessicale improprio può trasmettere messaggi negativi e fuorvianti in rapporto ai delicati risvolti psico-sociali che sembra evocare.

Mai come oggi si avverte il bisogno di comunità e di relazioni sociali per dare un senso alla vita delle persone. Associazioni, gruppi, reti di parentela, tutti accomunati da legami di natura affettiva, da scopi assistenziali, da comuni appartenenze a valori etici, religiosi, familiari, possono ricavarne sensazioni destinate ad accentuare il già pesante disagio esistenziale. Un disagio iniziato da tempo, figlio dell’esaltazione dei valori individualistici propri di una società polverizzata e liquida come la nostra. Anche l’impiego massiccio di strumenti telematici (piattaforme webinar), pur necessario in questi momenti di rarefazione dei legami interpersonali, non può ritenersi sostitutivo dei rapporti sociali “vis-à-vis” propri dei periodi normali. Natura e socialità, negli esseri umani, sono unite e distinte al tempo stesso. Gli antichi greci, sempre a proposito di rigore filologico, distinguevano fra “zoé” (la vita vegetativa naturale) e “bìos” (il come viviamo). L’uomo, affermava Aristotele, è per natura un “animale politico” la cui essenza è eminentemente sociale. È vero che, in contrapposizione al desiderio di socialità, esistono forme di comportamento che trasformano una condizione forzata in un nuovo bisogno.

Gli psichiatri fanno riferimento, in proposito, alla cosiddetta “sindrome della capanna o del prigioniero”. Essa consiste nel fatto che, dopo un lungo periodo di isolamento, non si ha più voglia di socializzare, di uscire dal proprio reclusorio. L’attuale pandemia, che ci rende così diversi e lontani dalla vita ordinaria, mi ha fatto riflettere su di una questione che avevo affrontato in un mio corso universitario di tanti anni fa. Essa riguardava il tema del distanziamento fisico e della costruzione culturale dello spazio sociale, in particolare le distanze che gli individui mantengono fra di loro. Negli anni Sessanta del secolo scorso, l’antropologo americano Edward Hall pubblica un saggio dal titolo: «La dimensione nascosta. Il significato delle distanze tra i soggetti umani» in cui affronta lo studio degli intervalli spaziali che le persone spontaneamente stabiliscono fra di loro. In particolare, l’autore introduce la distinzione fra “distanza intima” (0-45 cm), “distanza personale” (45-120 cm), “distanza sociale” (1,2-3,5 m), “distanza pubblica” (oltre i 3,5 m).
Attraverso questa ricerca sul campo nasce ufficialmente una nuova disciplina denominata «prossemica». Essa rientra nell’ambito della semiologia o semiotica/semeiotica ovvero la “scienza dei segni” ivi compresi, in ambito medico, i sintomi che manifestano l’insorgere di una malattia. L’originale ricerca di Hall porta ad alcune considerazioni importanti relative alla costruzione degli spazi interpersonali.

Lo studioso, osservando e misurando le distanze secondo cui si dispongono i frequentatori di luoghi pubblici (ristoranti, bar, piazze, vie) annota come, procedendo dal Nord Europa e dal Nord America verso sud  gli intervalli si accorcino e prevalgano sempre di più le esigenze di contatto fisico. Anche in Italia, tali comportamenti sono riscontrabili fra le regioni settentrionali e meridionali, nonostante i veloci processi di omologazione comportamentale. Questi diversi modi di segnare le distanze fra individui sarebbero riconducibili a fattori culturali. Tali riscontri di carattere antropologico ed etnografico potrebbero spiegare, ad esempio, la ragione per cui in Svezia e nei paesi a nord delle Alpi le misure restrittive di lockdown siano state più contenute rispetto all’Italia.
Il distanziamento fisico, in sostanza, sarebbe un fatto del tutto spontaneo, ascrivibile alla cultura in senso etnografico. Se ci spostiamo dagli aspetti legati al distanziamento fra le persone a quelli relativi alle abitazioni o alla tipologia degli insediamenti, il modello culturale sembra trovare una ulteriore conferma. Già Tacito scriveva, a proposito dei popoli germanici, che essi tendono a privilegiare distanze maggiori fra le loro abitazioni rispetto ai popoli latini ed a costruire dimore circondate da spazi naturali.

Ne abbiamo una riprova, a livello trentino, in alcune aree di confine con il Sudtirolo. Come noto, nell’anno 1974 gli antropologi John Cole e Erich Wolf pubblicano lo studio di comparazione etnografica fra l’insediamento trentino di Tret, in Comune di Fondo, e quello di Sankt Felix, sempre in Val di Non, ma di cultura tedesca. Le differenze di distanziamento fra le case - accorpate nel caso trentino, distanziate nel caso sudtirolese - evidenziano in maniera incontrovertibile le diverse culture del distanziamento fisico, oltre che sociale. Il titolo del saggio dei due studiosi riprende, anche nella denominazione («La frontiera nascosta. Ecologia e etnicità fra Trentino e Sudtirolo»), quel concetto di “nascosto” che l’americano Hall riconduceva a fattori culturali, apparentemente incomprensibili, di distanziamento fisico e sociale.

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