Fame e paura nel dopoguerra

Fame e paura nel dopoguerra

di Luigi Sardi

Sono i primi giorni del maggio 1945, 75 anni fa. C'è gioia perché la guerra è finita, ma c'è tanta fame e ancora molta paura. Si fa la coda sul portale, che dà sul bellissimo chiostro, del convento dei frati di via Grazioli dove si può ricevere pane e qualche volta baccalà.

E gli americani allestiscono una distribuzione di cibo sul piazzale, davanti alla Casa del Fascio proprio dove oggi c'è la fontana circolare, il "lavaman del sindaco" come venne battezzato quando, erano gli anni Cinquanta, venne costruita. C'è una parvenza di reticolato a delimitare la zona, ci si mette in coda in silenzio attorno a mezzogiorno e alle sei di sera con un catino di ferro smaltato o una gavetta militare e si aspetta; ci sono soldati di colore e qualcuno ha paura perché c'era in giro la voce che gli americani avevano reclutato gli abissini che volevano vendicarsi degli italiani ma le casse di cottura emanano il profumo del cibo, i cucinieri americani distribuiscono sigarette, grossi dadi di zucchero bianchissimo, pacchetti di marmellata. C'erano barrette di cioccolato in confezioni di carta stagnola che veniva accuratamente conservata, i pacchetti di biscotti, la meraviglia del chewingum al sapore di menta che si continuava a masticare e non si scioglieva mai. Però il cibo più atteso era la carne in scatola con la scritta Spam e i pacchetti di sigarette Chesterfield che garantivano infinite possibilità di baratto.

Qualche volta veniva distribuita una bibita in una bottiglietta particolare, anzi strana quanto il sapore frizzante che riempie la bocca. Sul vetro è scritto Coca-Cola: francamente nessuno poteva ipotizzare l'enorme successo di quella bevanda. Arriva il minestrone, le porzioni sono generose. «Tu fascista?» chiede il cuciniere ridendo. «No, no» risponde il coro degli affamati perché anche chi era stato fascista convinto, aveva davvero fame. Si poteva trovare qualche cosa alla borsa nera. Poca roba e i prezzi erano altissimi. Qualche uovo, formaggio, miele. C'era molta grappa che arrivava da Pinè e da Cembra. Quella non costava molto.

Si torna nelle chiese per i riti del mese di maggio, le donne in una bancata, gli uomini, sono pochi, nell'altra. Si riaprono le scuole e la prima a riprendere l'attività è il Liceo Tecnico Commerciale per Geometri. Il coprifuoco è dalle 21,30 alle 5,30 e si arriva a sabato 19 maggio e il giornale Liberazione Nazionale pubblica l'articolo di Gino Lubich a ricostruire la vicenda di Mario Pasi uno degli eroi della Resistenza. Nato a Ravenna nel 1913 diceva con orgoglio: «Mia madre è una mondina, mio padre uno spalatore di carbone». Lubich spiega che nel 1933, Pasi era entrato nel Partito Comunista Italiano; a Trento nell'ospedale Santa Chiara aveva lavorato come chirurgo poi dopo l'8 Settembre era andato nel Veneto a combattere i nazifascisti. Lo tradì una spia. Pasi non fece i nomi dei compagni, venne torturato ed impiccato e Lubich fece conoscere ai trentini la figura di un uomo che per 11 anni combattè contro la dittatura. Poi il giornale comunica i componenti della direzione del quotidiano: Giuseppe Ferrandi per il Partito Socialista, Lubich per il Pci, Eugenio Russolo per il Partito d'Azione, Flaminio Piccoli per la Democrazia Cristiana. Quel giorno per Piccoli cominciava con quella della politica, una prestigiosa carriera di giornalista. Un breve cenno sul "Partito d'Azione".

Nato nella clandestinità il 4 giungo del 1942, di respiro repubblicano, si rifaceva a Giuseppe Mazzini. Fra i leader Ferruccio Parri, Emilio Lussu l'autore del famoso libro Un anno sull' Altipiano, Riccardo Lombardi e Ugo La Malfa. Si sciolse nell'autunno del 1947.
Ecco l'articolo di Ferrandi intitolato "Trieste" a raccontare le armate iugoslave di Tito entrate in città, l'avevano occupata e minacciavano di attraversare l'Isonzo per dilagare nel Veneto a raccontare come gli ebrei triestini che erano riusciti a sfuggire ai tedeschi, ai fascisti, alle spie che ricevevano 5.000 lire per ogni ebreo consegnato agli assassini, riaprirono la grande Sinagoga e si avvicinarono alle macerie della Risiera di San Sabba fatta saltare in aria dai nazisti in fuga. Si sapeva poco di quello che fu lo "Stalag 339" il luogo di concentramento di partigiani, ebrei, croati, sloveni rastrellati e portati in quell'anticamera della morte spalancata sull'orrore, dopo l'8 Settembre del 1943 quando le zone attorno a Trieste e Gorizia erano state incorporate nel Reich e denominate Adriatisches Küsten Land, o più semplicemente Ozak. Comandava Friedrich Rainer, Gauleiter della Carinzia che affidò la Risiera all'SS Odilio Slobocnic, triestino. In quel luogo vennero assassinati, anche a colpi di mazza, oppure fucilati o soffocati con i gas di scarico degli automezzi, i partigiani, i prigionieri politici mentre gli ebrei venivano trasferiti ad Auschwitz.
Sulla tragedia degli ebrei triestini è stata scritta una storia molto puntuale.

Invece è ancora oscura la tragedia degli esuli in fuga dalla Jugoslavia, gli italiani cacciati da Tito dalla fine della guerra al 1947. Una vicenda fatta di grandi silenzi che per troppo tempo hanno circondato anche l'orrore delle foibe. La grande fuga di un popolo, cancellata dalla Storia fatta, magistralmente, rivivere in Magazzino 18 uno spettacolo teatrale intenso, scritto e recitato da Simone Cristicchi e portato a Trento nel Teatro Sociale con il Coro Notemagia di Lizzana e nel teatro di Lavis colmo di spettatori.

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