La stampa del Duce

La stampa del Duce

di Luigi Sardi

Guido Galimberti direttore del giornale “Il Brennero” ha un solo compito: scegliere fra le “veline” che arrivavano da Roma, quelle che più si adattavano ai “sentimenti fascisti della italianissima Trento”. Era sparito il termine “redenta” perché poteva infastidire gli alleati tedeschi mentre era sovrano l’obbligo di ignorare la Francia. C’ era l’ordine – lo ricordava il giornalista Mario Paoli di Pergine che lavorava nella redazione del quotidiano e di tanto in tanto era la fine degli anni Cinquanta nella redazione di Trento del giornale “Alto Adige”, raccontava qualche cosa dell’epoca del giornalismo in camicia nera – di “non scrivere notizie di quel paese ma criticare invece sempre e comunque l’Inghilterra”.

Il Duce aveva arruolato la stampa e molti giornalisti dell’epoca si erano arruolati non avendo altra scelta e le quotidiane veline guidavano l’informazione che doveva essere uguale da Bolzano a Catania. Erano fogli di carta velina scritti a macchina e in molte copie. Più sottile era la carta e più se ne potevano scrivere con una singola battitura, ponendo tra l’una e l’altra i fogli di carta carbone. Venivano spedite con le buste fuori sacco, cioè fuori dal sacco sigillato della posta e affidate al ferroviere della carrozza postale che le doveva con segnare ai fattorini di quotidiani in attesa alle varie stazioni dei percorsi Roma-Genova, Roma-Torino, Roma-Milano, Roma-Brennero e vie elencando tutte le città sede di giornali. Disposizioni precise quanto assurde. Ecco quella del 13 luglio del 1939: “Si riconferma la disposizione di non pubblicare foto di donne in costume da bagno” oppure quella del 14 luglio del 1940: “Usare la parola tedeschi e la parola germanici nella proporzione del 70 e del 30 per cento: cioè dire più spesso tedeschi”. Questo era il giornalismo nell’Italia fascista obbligato a dimostrare la “formidabile potenza” militare soprattutto sul mare, visto che sul fronte terrestre le armate tedesche stavano sgominando i francesi.

Solo tre giorni dopo il “fatidico discorso” di Mussolini che dichiarava guerra alla Francia, la flotta repubblicana attaccava il territorio italiano in un’azione combinata con l’aviazione. All’alba del 14 giugno mentre otto bombardieri Lioré et Olivier decollati da Tolone bombardavano i depositi di carburante di Vado Ligure, la terza squadra navale salpata dal porto militare della Provenza si schierava davanti a Genova. La flotta d’attacco era composta da quattro incrociatori, quattordici cacciatorpediniere e quattro sommergibili Alle 4:30 il primo gruppo aprì il fuoco su Vado Ligure e sugli stabilimenti metallurgici di Savona. Le esplosioni dei serbatoi di combustibili di Vado Ligure, seguiti due minuti dopo da altri boati provenienti dalle installazioni metallurgiche di Savona, diedero la sveglia agli abitanti. «Si scorgono, - scriverà più tardi il capitano di vascello francese De Loynes nella sua relazione - fiammate e colonne di fumo che si innalzano dai serbatoi».

Le città, i porti, la Liguria tutta dovevano essere difese da una flotta guidata dalla corazzata “Littorio” ma dopo l’arresto di un gruppo di congiurati, fra i quali Clara Marchetto la maestra di Pieve Tesino, la nave da battaglia era stata trasferita a Taranto. Si temevano sabotaggi come era già accaduto nella prima guerra mondiale quando diverse navi della Regia Marina, fra le quali la Benedetto Brin, affondata il 27 settembre del 1915 a Brindisi da una bomba ad orologeria collocata nella Santa Barbara della nave da battaglia, furono affondate da italiani arruolati per danaro dagli austriaci. Comunque all’alba di quel giorno di giugno, la reazione italiana fu pronta ma inefficace: sparano la  batterie costiere di Capo Vado; il treno armato T.A 120/3/S sparò 93 colpi con i suoi quattro pezzi da  120/45.

Le navi francesi non vengono colpite e la batteria costiera viene inquadrata dal cacciatorpediniere Aigle che, con i suoi pezzi da 138/40 centra la batteria e il faro di Capo Vado. Solo l’intervento dei Mas (motoscafi anti sommergibile) 534-535 e 538-539 della XIII flottiglia compie l’ azione decisiva. Attaccano i cacciatorpediniere francesi al largo di Bereggi lanciando sei siluri, l’incrociatore Foch manovra per evitarli, i cacciatorpediniere reagiscono e i Mas si allontanano senza aver causato alcun danno; alcuni marinai dei MAS 535 e il 534 sono feriti da schegge di granata, ma l’azione dei mezzi italiani fa ripiegare il nemico. Alle 4:48 l’attacco su Savona cessa: in totale sono stati sparati da parte francese circa 400 colpi e 300 da quella italiana.
Il secondo gruppo di navi francesi inizia la sua azione contro il tratto di costa fra  Arenzano e Sestri Ponente. La reazione italiana è più efficace. La batteria costiera Mameili spara 54 colpi con le sue artiglieria da 152 colpendo il cacciatorpediniere Albatros nel locale caldaie di poppa e causando 12 morti.

Aprono il fuoco anche i due pontoni armati GM-194 e GM-289. Il primo, ormeggiato a  Sampierdarena spara due colpi con la sua torre binata mentre il secondo spara un solo colpo da 190 mm. L’unica imbarcazione della Regia Marina a prendere parte alla difesa della città è la vecchia  torpediniera Calatafimi che stava scortando nella zona una posamine. La nave, comandata dal tenente di vascello Giuseppe Brignole, si avvicina – protetta dalla foschia – alla squadra francese e lancia alcuni siluri poco prima che le navi nemiche si ritirassero, senza aver colpito alcun obiettivo. Insomma, una battaglia navale molto violenta.

A Savona i morti furono 6 e i feriti 22. Morti e feriti si ebbero, ma in numero minore, anche a Vado-Zinola, mentre per Genova i danni materiali furono contenuti. Ancor più limitate furono le perdite fra i civili e fra le strutture della città, ma l’azione francese ebbe un’importante ripercussione sul morale degli abitanti e soprattutto sui vertici militari italiani.

Di fronte al coraggio dei Mas e della Calatafini, le difese liguri furono inefficaci. Le batterie costiere dimostrarono la limitatezza dei loro calibri contro un bombardamento navale e fu evidenziata la pessima reattività dell’apparato militare nella difesa delle città.

La flotta francese riuscì infatti ad avvicinarsi indisturbata ed a allontanarsi altrettanto indisturbata, grazie alla mancanza di ogni attività di ricognizione e alla scarsa reattività da parte della Regia Aeronautica che non riuscì ad intercettare la flotta d’attacco. Solo il giorno dopo – si legge nel diario di Galeazzo Ciano che puntualmente annota ogni atto di guerra – “volo sino a Nizza per cercare le navi francesi che hanno bombardato Genova. Tempo pessimo, navigazione [aerea] pericolosa. Rientro dopo due ore senza aver avvistato il nemico”. Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri, era ufficiale di aviazione con base a Pisa e la breve nota dimostra la grave incapacità dell’Italia di condurre una guerra aereonavale.

Ma “Il Brennero” esulta con il numero delle navi francesi affondate, con il successo del volo di rappresaglia dei nostri bombardieri che  non sono neppure riusciti a sorvolare Nizza. Da quel momento ogni azione militare italiana verrà gonfiata a dismisura. Questo era il dettato del Duce per i giornali.

(6. Continua) 

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