Il Dio del Calcio che doveva trasformarsi in uomo, e non ce la fece

Il Dio del Calcio che doveva trasformarsi in uomo, e non ce la fece

di Guido Pasqualini

Parliamo finché volete dell’uomo, nessuno si permetta di discutere il calciatore. 
 
È morto il più grande. Non c’è né Messi, né Pelè. Diego Armando Maradona era, è e sempre sarà il Calcio. 
 
Diciamo la verità: eravamo pronti al distacco fin dal momento in cui “el Pibe de Oro” smise di giocare, nel 1997. Eppure ora, che quel momento è arrivato, scopriamo di non essere preparati.  
Diego più volte ha sfiorato la morte, altrettante è “resuscitato”. Nella vita come nello sport. Nel 1983, a soli 23 anni, Andoni Goikoetxea, arcigno difensore basco dell’Athletic Bilbao, gli frantumò una caviglia con un’entrata assurda. L’astro nascente del Barcellona sembrava finito e invece doveva ancora iniziare a deliziare gli amanti del “futbol”. L’ultima resurrezione sportiva coincise con la sua definitiva condanna all’esilio: rientrò alle competizioni ai Mondiali 1994 negli Stati Uniti, trascinò al successo l’Argentina contro la Grecia e la Nigeria ma venne fermato dall’antidoping, che ne rilevò la positività all'efedrina. L’urlo di gioia davanti alle telecamere dopo il gol segnato agli ellenici si trasformò in grido di disperazione di un Dio del calcio che doveva trasformarsi in uomo e non ce la fece. 
 
Proprio i Mondiali, quelli del 1986 in Messico, lo consacrarono definitivamente. Bilardo, il tecnico, lo circondò di onesti manovali del calcio: chi di voi ricorda i nomi di Pumpido, Cuciuffo, Brown e Batista? Dieguito li condusse alla vittoria, con bravura e furbizia. La sintesi perfetta del successo fu la partita dei quarti di finale vinta 2-1 contro l’Inghilterra, un match il cui significato andava al di là del rettangolo di gioco a causa della sconfitta patita dai sudamericani nella guerra delle Falkland. Maradona fece doppietta: prima con la “mano de Dios” che beffò il portiere Shilton, poi con la serpentina ubriacante che fruttò il “gol del secolo”.
 
Nella sua seconda vita non è più riuscito a stupire in campo. Ha provato più volte ad allenare, negli angoli più remoti della terra - da Dubai agli Emirati Arabi fino al Messico - senza mai vincere nulla. Gli affidarono anche l’Albiceleste, che portò ai quarti di finale ai Mondiali del 2010, forse più per il carisma esercitato sui giocatori che per le disposizioni tattiche impartite alla squadra. 
 
Così giornali, radio e televisioni hanno continuato a occuparsi di lui soltanto per gli eccessi: le botte alla fidanzata di turno, le sbronze, i figli disseminati in tutto il mondo ma alla fine tutti riconosciuti, gli spari ai giornalisti assiepati fuori dal suo cancello di casa, la droga, le operazioni all’intestino per arginare i danni causati dalla bulimia che nel 2005 e nel 2015 lo tennero a lungo tra la vita e la morte. Da ultimo, a inizio novembre, la caduta in casa, il ricovero, l’operazione e il ritorno a casa, salutato da centinaia di tifosi scatenati nei cori e assembrati all’esterno dell’ospedale in barba al coronavirus.
 
Il suo cuore grande ieri ha ceduto. Perché Diego Armando era un uomo buono, un generoso capace di giocare su un campo in terra battuta della periferia di Napoli solo per far felice un bambino. Provate a chiedere ai suoi compagni dell’epoca, non ce n’è uno che parlerà male del Pibe. E non solo perché grazie a lui la squadra partenopea riuscì a vincere due scudetti, quelli che non aveva mai vinto prima e quelli che non ha mai conquistato dopo. Perché nel calcio c’è un prima e un dopo Maradona. Il resto sono soltanto chiacchiere.

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