Bilanci di un prof a fine carriera

Bilanci di un prof a fine carriera

di Alessandro Tamburini

Trascorrere tanta parte del proprio tempo in compagnia dei ragazzi può dare all’insegnante l’illusione di vivere una specie di eterna giovinezza, ma gli anni sono passati e come. Quando sedetti per la prima volta alla cattedra ero poco più grande dei miei studenti di quinta. Ora potrei essere loro nonno e alle udienze incontro genitori che si rivelano essere miei ex alunni.

A farmi sentire l’anzianità di servizio valgono poi certi episodi curiosi. Una mattina entro in sala docenti canticchiando il ritornello di una vecchia canzone e rivolto ad alcuni giovani colleghi dico «Dubito che possiate conoscerla perché è del ’63, quando voi non eravate ancora nati». Annuiscono con un sorriso. Poi una supplente al suo primo incarico osserva con una punta di crudele ironia «Per essere precisi, nel ’63 non era nata neppure mia madre…». Mi trovo a scambiare qualche parola durante la ricreazione con un’alunna di origine albanese, estroversa e loquace, che mi dà conto di problematiche vicende famigliari. Quando nel discorso mi scappa detto che al momento vivo da solo si illumina e dice «Allora potrei farle conoscere mia nonna!». Poi vedendomi alquanto interdetto si affretta a spiegare: «Guardi che mia nonna è giovane, vedova, ha appena compiuto cinquantasei anni ed è una bella donna, ha un sacco di corteggiatori!», e insiste per farmi vedere una sua foto che ha sul cellulare.

Negli ultimi tempi, forse proprio perché vedo avvicinarsi la fine di una così lunga esperienza, vivo in modo più intenso e pregnante il mio rapporto con la scuola, coi ragazzi soprattutto. È uno stato d’animo inedito, che mi sorprende e un po’ mi sconcerta, che non riesco a spiegarmi con chiarezza. Ha a che fare con il sentimento del tempo. È una specie di anticipata nostalgia di qualcosa che continuo a vivere ogni giorno. In principio entravo in classe con maggior leggerezza, mi ponevo meno interrogativi. Col tempo ho acquisito una crescente consapevolezza della posta in gioco, dei nuclei di umanità che durante una lezione entrano in relazione fra loro. Il vissuto che ogni ragazzo si porta appresso nell’aspra lotta per la conquista della propria identità. Mondi interiori che si travasano gli uni negli altri. Momenti difficili, talvolta amari, compensati da altri magici e inattesi.

Una mattina affronto un autore a cui tengo molto, per il quale attingo alle mie energie migliori, e mi accorgo che i ragazzi sono distratti, abulici. Per quanti sforzi faccia, non riesco a rompere il muro dietro cui sembrano trincerati. Allora mi prende lo scoramento, mi pare che stiamo facendo scempio di un tempo prezioso, e che l’impegno e il fiato profusi siano vani. La volta dopo invece si produce il miracolo, gli sguardi sono vivi e partecipi, sento che le mie parole alimentano un’energia che i ragazzi fanno propria e mi restituiscono accresciuta. L’esperienza mi ha insegnato che il senso del mio lavoro non va valutato in un giorno, ma nel corso dei tre anni che trascorro coi miei studenti, quelli che in terza erano ragazzini smunti e riottosi e alla fine della quinta sono diventati dei giovani che stanno per misurarsi con l’università o il lavoro, prossimi a varcare la linea d’ombra che li aspetta fuori. Ormai giunto a fine carriera, mi scopro anche più insofferente verso certi aspetti e momenti della vita scolastica che prima vivevo con maggior distacco, senza darmene troppo pensiero. Ad esempio riguardo ai documenti che un insegnante deve redigere e diventano sempre più numerosi e complicati, mentre la loro reale utilità rimane dubbia.

Si spendono ore e ore per compilarli, e non dà una bella sensazione sapere che in molti casi nessuno li leggerà mai, che si sta solo espletando una vuota funzione. Allo stesso modo si è affermata la tendenza a far svolgere alle classi prove scritte in forma di test, domande a risposta multipla, quesiti che vorrebbero accertare le capacità e la preparazione di un alunno per mezzo di una serie di crocette, come all’esame della patente o nelle schedine del SuperEnalotto. Sono pratiche che reputo in larga parte sterili e fuorvianti, avulse dalle priorità della scuola. Così come per le griglie di valutazione, o le prove per classi parallele, sembrano mosse dall’obiettivo di raggiungere una oggettività assoluta. E sarà pur vero che gli studenti rischiano di venire valutati in modo disomogeneo a seconda dell’insegnante che si ritrovano, ma conta di più il fatto che ogni classe, ogni alunno, è un universo a sé, con un livello di partenza, un percorso, un’identità che non è possibile misurare con un procedimento di tipo scientifico. Le cose che più contano sono le più difficili da contare.

Quando si ha a che fare con delle persone resta imprescindibile il fattore umano, che sfugge a schemi prefissati, anzi ne viene impoverito e snaturato. Infine non condivido lo spirito e gli intenti di un’altra novità degli ultimi tempi: l’alternanza scuola-lavoro. Centinaia di ore all’anno che vengono sottratte alla didattica canonica e che i ragazzi devono trascorrere presso aziende, studi, cantieri, a seconda del loro indirizzo.

Alcuni lamentano esperienze poco costruttive, altri ne sono soddisfatti, ma è l’assunto di base che non mi persuade proprio. Il mezzo secolo che i ragazzi dovranno dedicare all’attività produttiva mi pare più che sufficiente. L’obiettivo della scuola deve essere quello di formare la persona, prima che il futuro lavoratore. Qualunque cammino professionale intraprenderanno, i ragazzi dovranno costruire rapporti umani, affettivi, famigliari. Dovranno capire chi sono, il modo e la direzione in cui hanno maggiori possibilità di realizzare se stessi. Per questo, più di qualunque stage aziendale, credo possa giovargli la letteratura, immenso patrimonio di mondi e vite possibili, impareggiabile repertorio per capire come possono essere vissuti e interpretati gli stati d’animo, i desideri, i sentimenti, nodi cruciali della vita di ognuno.

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