Lo scrittore Andrea Vitali: "La parola del medico è una vera terapia"

di Paolo Micheletto

Non ha avuto dubbi, Andrea Vitali. Di fronte alla richiesta di aiuto di un collega, è tornato a fare il medico di base: «Mi sono messo a disposizione della comunità, come ho fatto per 25 anni». Autore tra i più apprezzati degli ultimi vent’anni, con i suoi romanzi ambientati a Bellano, paese affacciato sulla sponda orientale del lago di Como, ha regalato decine di storie, in epoche storiche diverse, dall’età fascista in poi: tutte vicende accomunate da una grande ironia nella descrizione dei personaggi e degli avvenimenti.
Vitali ammette che in questi giorni è difficile fare ricorso all’ironia. E sul suo impegno medico spiega che tutto sommato «la mia è una operatività limitata, che non ha nulla a che vedere con l’impegno di tanti medici, impegnati davvero in prima linea».

Ma non ha avuto dubbi nel mettersi a disposizione nel momento del bisogno.

Ho iniziato con la sostituzione di un collega medico di base, finito in quarantena sospetta. Qualche giorno di lavoro e poco più: sono a servizio della comunità per la quale ho lavorato 25 anni. Ho smesso nel 2013.

Però in questi giorni il suo lavoro da medico è proseguito.

Ho la fortuna di vivere in un paese di tremila abitanti: ci conosciamo tutti. Qualche colpo di telefono, una visita domiciliare, non necessariamente legata al coronavirus.
Sono stato contattato per un mal di schiena, un mal di pancia, malesseri tipici del lavoro del medico di base.

La gente è spaventata, vero?

Tutti i soggetti alle prese con la febbre hanno paura di essersi beccato questo diavolo chiamato coronavirus. La paura coinvolge soprattutto i soggetti soli, perché la solitudine aggiunge un problema ulteriore. Davanti alla rassicurazione di non essere stati colpiti dal coronavirus l’ansia si smorza, ma l’aspetto psicologico rimane molto importante.

Lei ha incontrato pazienti ammalati di coronavirus?

No, non mi è capitato.

Però è un rischio che tutti i medici mettono in conto.

Sarebbe sciocco non metterlo in conto. Ma di fronte a questa possibilità vince il dovere morale dei medici, a maggior ragione nel mio caso, visto che ho a che fare con pazienti amici.
Molti dei miei pazienti li conosco da sempre, ancora prima di diventare medico.

Ha avuto la conferma che i tagli alla sanità effettuati in tanti anni si fanno sentire anche in questa emergenza?

Prevedere un’emergenza di questo tipo non era possibile. Ho notato però che c’è stata una forte riabilitazione del medico di base, un ruolo che piano piano aveva perso importanza. Anche per questo il mio entusiasmo si era ridotto, fino a quando avevo deciso di abbandonare il ruolo e di dedicarmi a tempo pieno alla scrittura. Ora l’entusiasmo è tornato prepotente, e il medico di base ha recuperato la funzione di raccordo tra la dimensione dell’ospedale e la sanità del territorio. Si era arrivati ad un punto nel quale c’era una fede cieca, basata su solide basi, nella strumentistica e nella diagnostica e poca attenzione alla parola come atto terapeutico. In queste settimane le raccomandazioni tipiche dei medici di base hanno ritrovato la loro giusta importanza. Faccio un esempio: durante ogni picco influenzale è valida la raccomandazione di non andare vicino al nonno di 85 anni, per non fargli correre il rischio di un’infezione. Lo stesso si può dire per il lavaggio delle mani: un consiglio che ha da sempre la sua utilità.

Dopo essere tornato ad esercitare da medico ha messo da parte la scrittura?

No, le mie giornate sono sempre dedicate alla scrittura e alla lettura. Non potrebbe essere altrimenti. Ma sono a disposizione di chi ha bisogno: tra poco, ad esempio, farò visita a un paziente alla prese con una fastidiosa lombosciatalgia.

Riesce a mantenere lo stile ironico e allegro che caratterizza tutti i suoi libri?

Mi sono reso conto del bisogno di scrivere: quando arrivo a fine giornata qualcosa devo aver fatto. Ma mi sono accorto che è difficile mettere nella storia lo sprint, l’allegria e il divertimento necessari.
La storia che sto sviluppando procede in maniera abbastanza allegra, ma credo che ci sarà bisogno di un’aggiunta ulteriore - nei dialoghi e nei personaggi - in un secondo momento. La storia dovrà decantare in un cassetto: credo che sia la conseguenza della costrizione domestica.

Tutti aspettiamo il momento in cui «tutto questo sarà finito». Secondo lei ci sarà sempre più bisogno di leggerezza e ironia?

Ci sarà bisogno di una nota di ironia, certo. Ma sempre tenendo conto di quanto abbiamo passato: sarà molto difficile dimenticare. Penso a quanto hanno vissuto gli anziani durante la guerra: si portano dentro una cicatrice indelebile. Ma allo stesso modo penso anche al disagio delle generazioni più giovani, che mai avrebbero pensato di vivere esperienze del genere. In questo momento io mi porto dentro tanti punti interrogativi: quando usciremo da questa emergenza? E quando sarà tutto finito faremo vita di relazione come prima, frequentando stadi e cinema? Ognuno porterà con sé una personale percezione del riprendere la propria vita.

L’ha colpita la reazione degli italiani che hanno cantato dai loro balconi?

Non in maniera particolare, anche perché - come è stato detto in provincia di Bergamo - c’è ben poco da cantare. Mi hanno colpito di più le immagini della benedizione del papa in una piazza San Pietro vuota e desolata e le tante dimostrazioni di solidarietà.

I lettori le hanno scritto per ringraziarla per la compagnia dei suoi libri?

Sono arrivate diverse mail, soprattutto dopo la scelta dell’editore di mettere a disposizione in forma elettronica e gratuita «Una finestra vistalago». I ringraziamenti sono stati tanti, con molte persone che mi hanno ricordato come la lettura sia importante per lenire la costrizione.

L’obbligo di restare a casa può essere l’occasione per molti di riscoprire la lettura.

Certo, un buon libro sembra fatto apposta per questi giorni. Ma mi preoccupa la mancanza di socialità: per molti non sarà facile riprendere la vita di tutti i giorni, andando al cinema o nei luoghi più affollati. Io credo che “la paura da ripresa” non scomparirà dall’oggi al domani.

Qual è il suo libro che più si avvicina a quanto stiamo vivendo?

Io credo «Documenti, prego», un romanzo dove si fa fatica a percepire se quello che si sta vivendo sia sogno o realtà, il tutto in un gioco onirico.

Vede anche qualche aspetto positivo in questa emergenza?

Il mondo è un po’ più pulito del solito. Ci pensavo l’altra sera: dalla mia finestra vedo le stelle in cielo e non le strisce degli aerei. E il silenzio sulle strade è totale: il miglioramento della qualità dell’aria è evidente. Credo che il tema della conservazione della terra non dovrà mai più essere abbandonato.

Le manca il contatto ravvicinato con i lettori?

Naturalmente mi manca, ma ti rendi conto che non si tratta certo della priorità di queste settimane. La presentazione del mio libro («Un uomo in mutande: I casi del maresciallo Ernesto Maccadò») era prevista il 19 marzo ed è stata rinviata. Sarà presto disponibile in versione digitale e anche cartacea: per quanto riguarda le mie letture io preferisco la carta, e anche se non si può andare in libreria mantengo ancora una discreta riserva in casa.

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