Il «Museo della bicicletta» il sogno di Dario Pegoretti a Pergine 120 pezzi rari

di Fabrizio Franchi

Racconta di fatiche e di sudore, di donne e di ideali. Racconta di umanità, Dario Pegoretti a chi lo avvicina per chiedergli informazioni su ciò che sta facendo.

Pegoretti ha gambe sottili e nervose, tipiche del ciclista. E lui, buon ciclista, alle due ruote ha consacrato la vita, prima con il Museo del Paracarro e ora con il Museo della Bicicletta che vuole costruire nei pressi, a due passi dalla chiesa di Canezza di Pergine. Il mese prossimo dovrebbe andare in Comune a Pergine per firmare un preliminare.

La costruzione sarà a sue spese, vuole solo che l’amministrazione gli dia le autorizzazioni. In cuor suo, vuole salvare le 120 biciclette storiche che soffrono in un magazzino e che nessuno può vedere. Biciclette che raccontano la storia del ciclismo, in particolare del ciclismo trentino e della Valsugana: dal “Ciclone” appartenuto al dottor Gerloni, antesignano degli attuali farmacisti. Il “Ciclone” è la famosa bici ottocentesca con la gigantesca ruota anteriore e il ruotino posteriore che vediamo sempre nelle immagini d’epoca. Ma c’è anche una meravigliosa bici che invece della catena ha un cardano che ha ispirato la Bmw per le sue moto.

Per non parlare di un “ciclino”, con il manubrio al contrario su cui si poggiano le natiche e che, costringendo il pedalatore a stare eretto, impedisce le forzature alla schiena. Un modello esaltato dal Fascismo durante gli anni ’30 e poi scomparso. E, ancora: le bici dei grandi, dal modello usato da Eddy Merckx a quella di Bitossi, da Saronni a quella di Aldo Moser. E a corredo per ognuna delle bici che sono state usate per gareggiare, Pegoretti ha la maglia, compresa quella di campione del mondo di Saronni e tanti oggetti che ricordano la storia del ciclismo.
L’attività di Pegoretti si esalterà domenica con la Ciclostorica Valsugana che comprende il Trofeo papà Felice, dedicato alle famiglie con più generazioni che si presentano alla partenza e soprattutto il Memorial Ermanno Moser, intitolato a un personaggio che Pegoretti ricorda con grande affetto.

Moser, già ciclista professionista negli anni ’30, aprì il suo negozio di biciclette a Trento. E Pegoretti ricorda perché il mondo del ciclismo gli deve tanto: «Ci ha fatto correre a tutti quanti, regalandoci tubolari di nascosto dalla moglie, pezzi di ricambio, in qualche caso sfamando qualcuno con bistecche o addirittura facendo accordi per fare correre Aldo Moser con una bici nuova: la pagò a rate con borracce di grappa.
Non solo, Ermanno Moser pagò di tasca sua la pista allo stadio Briamasco per fare arrivare il Giro».

Il Giro, appunto. Si racconta che Ermanno Moser nel ’35 pur di correre partì con uno zaino pieno di salami che avrebbero dovuto sfamarlo lungo il viaggio. Tempi eroici, tempi da non dimenticare. E nel suo lavoro di memoria, domenica sarà ricordato anche Marcello Osler, ciclista che è tuttora amato da tutti.
Pegoretti si anima indicando i paracarri su cui c’è una targhetta per ogni corridore a cui è dedicato un ceppo.

Sottolinea la storia: quello dedicato al 70° della Costituzione antifascista, quello dedicato a Alcide De Gasperi. Per ricordare la Costituzione fecero un viaggio lui e altri ciclisti. A tappe, passando anche per i luoghi del martirio, come Marzabotto, dove i nazisti uccisero centinaia di cittadini italiani insieme al loro bestiame, in segno di spregio. Sport, ma anche cultura. Luoghi della memoria, perché lo sport, il ciclismo non è solo puro atto fisico. Pur essendo sport individuale presuppone relazioni con gli altri. Nessun uomo è un’isola. Non si è mai soltanto una macchina che si arrampica sullo Stelvio come Fausto Coppi, uomo forte e visionario o come Gino Bartali, “Giusto tra le nazioni” per la sua attività antifascista e di sostegno agli ebrei perseguitati. La storia dei corridori è storia umana, come quella di quel professionista bresciano, fortissimo come pochi, ma rovinato dalla sua passione per le donne.

La storia del ciclismo è storia di uomini, di uomini che subirono, come Ottavio Bottecchia, che Pegoretti adora. Unico ciclista a vestire nel 1924 la maglia gialla al Tour de France dalla prima all’ultima tappa. Un uomo coraggioso e schietto. Nel 1923 i fratelli Pellissier in cambio di soldi lo convinsero a farsi da parte e a perdere il Tour. L’anno dopo disse di no: «L’anno scorso avevo fame. Quest’anno ho fame di gloria». E vederlo in certe foto, arrampicarsi sulle montagne su strade impossibili, polverose, terribili o mentre cambia il tubolare bucato, togliendolo con i denti, fa intuire che cosa è stato il ciclismo. E che cosa sia stato Bottecchia, forse ucciso in Friuli nel 1927 dai fascisti a bastonate. Figurarsi se poteva avere paura di quei quattro gallinacci neri, lui che aveva affrontato le Alpi. Ci ha rimesso la vita per voler tenere la schiena dritta. Ed è stato dimenticato. Anche per Bottecchia, Pegoretti vuole tenere viva la memoria del ciclismo, lui che sembra il sosia di Hinault e in questo ruolo apparirà in alcuni prossimi spot Rai. Hinault e Bottecchia, Moser e Bartali. L’umanità viaggia su due ruote.

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