Il ritorno del Banco, Nocenzi: «Il mio orlando contro l’odio»

di Fabrizio Torchio

A un quarto di secolo dall’ultimo album, con il nuovo «Transiberiana» uno dei gruppi storici del progressive italiano, il Banco del Mutuo Soccorso, è ripartito da Verona per un tour che ora toccherà Roma (31 gennaio), Campobasso (1 e 2 febbraio), Genova (5 febbraio), Avezzano (27 marzo), Bologna (31 marzo) e Martina Franca (4 aprile).
Scomparsi Francesco Di Giacomo e Rodolfo Maltese, quello guidato dallo storico leader Vittorio Nocenzi, con la chitarra di Filippo Marcheggiani, è un “nuovo” Banco, con la voce di Tony D’Alessio e le individualità di Nicola Di Già, Fabio Moresco, Marco Capozi. Ma in “Transiberiana” i legami con il passato non passano inosservati, dal salvadanaio in copertina alle atmosfere evocative di tastiere e chitarre. Negli 11 brani che non superano i 6:33 (con citazioni e omaggi strumentali) i testi ben raccontano - alla maniera del Banco - l’umano tragitto nella metafora del viaggio fra ostacoli, difficoltà, meraviglie. Ne abbiamo parlato con Vittorio Nocenzi, autore con il figlio Michelangelo delle musiche.

Da “Stelle sulla terra” in poi, lei ha descritto l’album come un viaggio. È anche la metafora del percorso del Banco?

«Credo sia la metafora della vita, il viaggio della vita. Mi sembrava bello che in questo momento della nostra carriera facessimo un lavoro anche in qualche modo autobiografico. “Campi di fragole”, omaggio neanche troppo velato a Strawberry Fields Forever dei Beatles, è messo insieme ad un vecchio proverbio popolare che dice “sotto la neve c’è il pane, sotto il ghiaccio la fame”. Quando c’è la neve sotto, la terra dà futuro, e ricordare le radici è guardare al futuro. “Oceano: strade di sale” è un omaggio allo stile compositivo e orchestrale di certe soluzioni degli anni ’80, altro momento importante della nostra carriera. Mentre lavoravo sulle Legacy Edition dei nostri primi tre album ho incontrato un desiderio del pubblico, ho sentito affetto e la voglia di proseguire. Per farlo adeguatamente c’era un solo modo: scrivere un’opera nuova».

Ci sembra di cogliervi anche una sorta di disagio esistenziale per chi ha vissuto le utopie di quegli anni, come in “Lo sciamano”. È così?

«Sì. Nel lavoro ci sono tanti messaggi, è una metafora della vita ma anche un continuo guardarsi attorno nell’oggi. E quindi non è difficile capire che ci si possa trovare a disagio nel vedere attorno a noi una globalizzazione progettata non per i colori ma con un grigio topo partorito dalla finanza, non dalla vita quotidiana della gente. La diversità è il sapore della vita: la scoperta, il confronto. Se andiamo a rendere tutto omogeneo togliamo una delle cose più importanti della vita».

E c’è una globalizzazione musicale?

«È inevitabile. La musica, come ogni forma d’arte, esprime il proprio tempo in maniera implacabile. Se viviamo tempi brutti quello che esce è brutto».

L’album è dunque una sorta di risposta?

«Sì, perché siamo contro questo tipo di globalizzazione, non la condividiamo né emotivamente né concettualmente. Stiamo vivendo uno dei periodi più brutti degli ultimi secoli, dove stiamo mortificando costantemente il valore della conoscenza, la ricchezza che questa ci dona, e stiamo scambiando l’ignoranza per strumento con il quale vivere. Non posso accettare una società in cui, per decidere se i vaccini fanno bene o fanno male, metto su un tavolo di discussione da una parte l’epidemiologo, il biologo, e dall’altra chi non sa. Stiamo navigando su mari pericolosi. Se non leggi, non ti informi, non puoi valere uno, vali mezzo. L’ignoranza è la nemica della libertà perché ci rende burattini dei quali chiunque tira i fili. C’è un brano nuovo che ho scritto con mio figlio Michelangelo che si intitola, non a caso, “La libertà difficile”. È quella che passa attraverso la conoscenza, senza la quale non siamo liberi».

Il brano “I ruderi del Gulag” sembra accennare al mondo delle fake news: «senza gabbie ci imprigionano...»

«Esattamente».

Insieme a Guccini, Branduardi, Finardi e altri, lei ha sottoscritto il manifesto “Il suono della parola e la lingua del bel canto”. Che significato aveva?

«L’avevo scritto io. La società Dante Alighieri aveva chiesto di rilanciare il valore della nostra lingua come strumento di espressione artistica, quindi ho coinvolto amici e persone che stimo per scrivere questo manifesto; anche in “Transiberiana” c’è stata un’esperienza in questo senso. Avevamo già iniziato a far cantare Tony D’Alessio in inglese, ma poi ho pensato: da 50 anni ci amano all’estero, in inglese metteremo le traduzioni dei testi, ma per seguire le emozioni di ciò che stiamo cantando non serve cantare in inglese. Tony D’Alessio ricanta tutto in italiano, esce la prima recensione di Prog Uk, la “bibbia” del rock progressive internazionale, redatta in Inghilterra, e comincia con “Italian is better”. Ne siamo molto orgogliosi».

Il riferimento al vostro primo album è già nella copertina, nel salvadanaio. Qual è il filo che lo collega a “Transiberiana”?

«Il Banco è sempre stata una band di rock progressive, ma questo è uno strumento per esprimere un progetto, l’utopia dell’arte totale: il balletto come espressione del suono, il quadro della musica. E la poesia che nasce cantata. La parte letteraria del brano musicale amplifica e dilata le immagini indirette che la musica evoca quando la ascoltiamo. Se penso alla musica, penso sempre a un testo che la moltiplichi, e questo è stato sempre il progetto del Banco. L’intrattenimento va benissimo ma non può essere l’unico significato della musica. La musica è molto di più, è una chiave di accesso alla parte più intima di ciascuno di noi, la parte che non esibiamo spesso ma che è la più bella perché è vicina ai sogni, alle idee, alle speranze e alle utopie».

Accenna all’idea dell’arte totale: è quanto ha cercato di fare con Alda Merini?

«Esattamente. Ho amato tantissimo Alda Merini, le ho chiesto di comporre tredici poesie inedite, ognuna per ogni brano strumentale che ho composto. Ha accettato subito, ci siamo incontrati nella sua casa a Milano e mi ha donato tredici poesie inedite. L’idea era quella di dire all’ascoltatore: questa è la musica, questa la poesia. Mentre ascolti il brano, leggi i versi, fai tu lo chef della tua anima. È stato molto gratificante. Per l’album “Estremo Occidente” (ispirato agli esagrammi dei Ching) ho inviato cento cd ad altrettanti pittori, attori e musicisti - Ennio Morricone, Angelo Branduardi, Enrico Ruggeri, Paola Gassman -: dalle loro recensioni è uscito il libro “Sguardi dall’estremo occidente”».

A che punto è il progetto Orlando?

«Ho terminato di scriverlo, ci sono due ore di musica e testi inediti già pronti: bisogna orchestrarli, registrarli, trovare sei, sette voci per tutti i protagonisti principali. Sarà un anno intenso di lavoro. Liberamente ispirato all’Orlando Furioso di Ariosto, è una proposta di mio figlio Michelangelo, che mi un giorno mi ha chiesto: “Perché non tornate nel posto ideale da dove siete partiti con l’ippogrifo del salvadanaio, 50 anni fa?”. Mi fece sentire un brano che aveva scritto per Orlando disperato di amore. L’idea di un’opera contemporanea ispirata all’Orlando Furioso mi piacque tantissimo, la esposi a Francesco Di Giacomo che si entusiasmò alla cosa, purtroppo il destino ha voluto che non se ne occupasse di persona. L’Orlando declina tutte le varie forme di amore con la cornice dello scontro fra Oriente e Occidente. Mi sembrava bello lavorarci perché è una risposta civile a un odio forsennato. Mi piace pensare che inizi con una registrazione e possa diventare un film... Il Banco ora è molto concentrato sull’attività concertistica, diamo tutta l’attenzione alla tournée, la storia della band prosegue alla grande. È una formazione diversa di persone eccellenti, la voce di Tony D’Alessio fa onore alla tradizione del Banco. E fu proprio Di Giacomo, in epoca non sospetta, ad indicarmi Tony come possibile successore».

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