Al Melotti di Rovereto le macchine musicali di Bastien

di Fabio De Santi

Si annuncia una performance dalle atmosfere sognanti e immaginifiche quella che il compositore e polistrumentista francese Pierre Bastien proporrà sabato alle 21, al Melotti per “Musica Macchina”.
Nato a Parigi nel 1953, Bastien è una figura non comune nel campo della sperimentazione musicale: si ispira nella sua ricerca alla tradizione francese del Settecento quando si iniziò a realizzare automi capaci di riprodurre brevi melodie o di imitare il suono degli strumenti, e costruisce la sua prima «macchina musicale» nel 1977.
In questa intervista, realizzata con la preziosa collaborazione di Marco Segabinazzi, Bastien ci svela il suo mondo sonoro.

Bastien, iniziamo dalla sua performance a Rovereto: quali forme avrà?

«Attualmente sto ancora lavorando a quello che sarà il set, ma posso dire che da qualche tempo nei miei concerti sto cercando di suonare meno i miei strumenti e lasciare più spazio alle macchine che costruisco. Come sempre accade nella mia musica, vi saranno delle parti armoniche e altre più “rumorose”. Inoltre, nel live a cui assisterete non proietterò dei video, ma molto probabilmente si vedranno sullo schermo dei giochi di ombre creati dalle macchine».



La sua peculiarità si lega alla costruzione di macchine sonore: come ha iniziato a percorrere questa strada così particolare?

«È stato molto tempo fa, nel 1976. Allora ero già attivo nella scena musicale e l’elettronica non era così presente nella musica come lo è oggi, dunque la soluzione migliore per chi come me amava le strutture ripetitive, i loop, i sample, era di costruirsi le proprie macchine. Ed è quello che ho fatto, realizzandone una che potesse dialogare con i suoni del mio solo di contrabbasso di allora».

In quale modo costruisce le sue macchine musicali? Parte con un’idea definita in mente, oppure si lascia guidare dalle fasi della costruzione?

«Probabilmente entrambe le cose. Parto senz’altro con un’idea in mente, ma allo stesso tempo, usando un materiale come il Meccano, che mi consente di improvvisare, mi capita di cambiare idea in fase di costruzione oppure di commettere degli errori che a volte si rivelano migliori dell’idea iniziale. Non accade sempre, ma a volte i fallimenti possono essere produttivi».

Le sue performance producono nello spettatore un’esperienza audiovisiva, e possono essere considerate una forma di cinema o teatro sperimentale, oltre che dei concerti. Inoltre ha composto musica per alcune compagnie di danza. Come hanno influenzato il suo processo creativo le arti diverse dalla musica?

<Credo che più di ogni altra disciplina mi abbia influenzato la letteratura. Certo, anche le arti visive, ma principalmente la letteratura. Credo che lo scrittore si trovi nella posizione migliore per inventare qualcosa, per sviluppare la propria immaginazione: non necessita che di carta e penna (o di un computer) per esprimere le proprie idee, a differenza ad esempio di un musicista, che avrà sempre bisogno di padroneggiare quelli che chiamiamo strumenti, siano essi tradizionali o macchine.Ho avuto un sacco di ispirazioni dai libri. Per fare un esempio recente, al momento sto curando una compilation basata sugli strumenti immaginari: ho invitato 20 musicisti a registrare dei pezzi dopo aver letto degli estratti da opere letterarie in cui venivano descritti degli strumenti musicali immaginari. Ed è incredibile la quantità di tali strumenti che si può trovare nella storia della letteratura – un esempio su tutti, i “sexophones” descritti da Aldous Huxley nel Mondo nuovo>.

Come definirebbe la sua musica?

«La musica contemporanea oggi è spesso descritta come “musica sperimentale”: il che è senz’altro vero, perché quello che fanno i musicisti e i compositori come me è sperimentare con la musica e mostrare su un palco le proprie scoperte. Il fatto di non avere avuto una formazione musicale accademica forse spiega come io suoni la mia musica con delle macchine fatte con il Meccano e cerchi di offrire all’ascoltatore uno spettacolo che sia non solo per le orecchie ma anche per gli occhi».


Quali sono i suoi riferimenti, gli artisti che sono per lei imprescindibili?

«È una lunga lista, ma se proprio devo sceglierne alcuni, direi Alexander Calder e Francis Picabia per le arti visive, e lo scrittore Raymond Roussel per la letteratura. Per quanto riguarda la musica sono stato ispirato e continuo a esserlo da una lunga lista di musicisti anonimi: ad esempio è incredibile la quantità di musicisti della tradizione africana i cui nomi ci sono sconosciuti, anche se spesso alle loro musiche sono stati apposti i nomi degli etnomusicologi occidentali che le hanno scoperte».

Musica Macchina è una rassegna che riflette sulle relazioni tra musica e tecnologia (sia essa analogica o digitale). Ci sono artisti della musica elettronica contemporanea che segue e ama ascoltare?

<Certamente! Tuttavia nei miei ascolti cerco di non separare i musicisti elettronici dagli altri, è uno standard di classificazione che non mi convince. Credo che per la prima volta ci troviamo in una fase in cui i generi vengono definiti dai materiali con cui la musica è realizzata. Ma se amo ascoltare Aphex Twin o Squarepusher, non credo sia perché usano l’elettronica. Se ascolto Rabih Beaini, è perché amo la sua musica, e tra i miei dischi può finire accanto a Jac Berrocal o altri musicisti che non usano l’elettronica>.

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