Si fa presto a dire ripartenza: due ore per ogni cantiere la storia della Mak e del Covid

di Giorgio Lacchin

 «Faccio un esempio».
Così capiamo.
«Il cantiere dello stadio Druso a Bolzano».
Ah già, perché la Mak Costruzioni è presente anche in Alto Adige.
«Poi dico qualcosa anche su questo».
Okay, torniamo all’esempio.
«Sa quanto impieghiamo a completare le operazioni d’entrata nel cantiere dei 60 operai?».
Non so...
«Quasi due ore».


Mirko Pellegrini è il titolare della Mak di Lavis. La pandemia ha raso al suolo un modo di lavorare e sulle macerie ne sta sorgendo un altro.
«Immagini gli operai in fila», riprende Pellegrini, «il responsabile che misura la temperatura di ognuno con il termoscanner... poi compila la scheda personale...».
Moltiplicato per sessanta.
«Afferrato?».
Adesso sì.
«La giornata lavorativa si è ridotta drasticamente».
Da otto ore a quanto?
«Sette o poco più».
Ma la colpa non è degli operai.
«Ovvio. Ci mancherebbe!».
È il nuovo protocollo.
«Così adesso non li facciamo arrivare tutti assieme in cantiere, ma un po’ alla volta».


E non sarà l’unica differenza rispetto alla vita di prima.
«L’ha detto», s’inserisce Andrea Gazzoni, responsabile della produzione della Mak, grattandosi la fronte. Gazzoni segue i cantieri e la produzione, è il responsabile della sicurezza e il referente per la gestione dell’emergenza Coronavirus.
«Restiamo ai cantieri altoatesini», prosegue.
D’accordo.
«Pensi al numero di operai sui furgoni».
Vero, non ci si pensa.
«Secondo le nuove norme, su un furgone da 6 possono stare in tre, e su un furgone da 9 in quattro. Così per raggiungere i cantieri occorrono più furgoni».

Mirko Pellegrini, al suo fianco, annuisce. Mirko ha fondato questa importante azienda edile nel 2004 insieme al fratello Andrea. La Mak ha poco più di 180 dipendenti: 140 impegnati nei cantieri, una quarantina in ufficio a Lavis. Ha costruito scuole, fognature, strade, campi da calcio, villette, condomini, capannoni. Di tutto un po’. L’anno scorso la Mak ha registrato un fatturato di 37 milioni di euro. La sede è una moderna “scatola” lunga e stretta, su tre piani. Entrando si respira efficienza, impegno, ambizione.

Una curiosità, Pellegrini: lavorate molto in Alto Adige?
«Dei 23 cantieri aperti adesso, 16 sono in Alto Adige».
Come mai?
«In Trentino c’è poco lavoro».
Non mi dica che ci sono pochi soldi.
«Di sicuro non escono appalti. E forse non ci sono neanche tutti questi soldi».
Pellegrini, mi parli dei soldi.
«Quelli persi per il Coronavirus?».
Cominciamo da lì.
«Siamo stati fermi dal 14 marzo al 4 maggio».
Praticamente due mesi.
«In termini di fatturato, -15% circa».


Il personale?
«Abbiamo anticipato la cassa integrazione a tutti, per tutto il periodo della chiusura».
Avete ripreso a pieno regime?
«Quasi. Stiamo adeguando i protocolli della sicurezza di ogni singolo cantiere: non tutto è ripartito, ancora. Ma non è che vuole vedere un cantiere?».
Magari!
«È vicino, andiamo».
Vicinissimo, in effetti. Saranno al massimo cento metri. Qui sta per nascere un grande panificio: produzione e vendita. Simone Littera è il responsabile del cantiere. «Le racconto la mia esperienza», attacca, bardato di mascherina, guanti, casco e gilet giallo fosforescente d’ordinanza, «le racconto come si lavora dopo la pandemia».
Siamo qui per questo, Littera.
«All’esterno del cantiere, prima di cominciare, misuro la temperatura a tutti e la riporto sulle schede personali, poi via! si entra, ognuno al proprio posto, la mascherina ben piazzata su naso e bocca».
Per otto ore.
«È molto faticoso portare i dispositivi per tutto il tempo».
E quando scoppierà il caldo vero?
«Non voglio pensarci».
Le distanze?
«Difficile mantenerle in ogni momento, ma dobbiamo farlo».

«A proposito di cantieri», s’inserisce Pellegrini, «una volta se avevo bisogno di più operai da una parte, ne toglievo dall’altra. Ora non è possibile: dobbiamo compartimentare tutto, anche all’interno di uno stesso cantiere, e tenere traccia di tutto, in modo che se uno dei nostri uomini contraesse il virus isoleremmo il suo spazio di lavoro e basta, e negli altri settori potremmo andare avanti».

Torniamo in sede. Passa un tizio bardato da emergenza atomica: tuta bianca dalla testa ai piedi, guanti rossi, mascherina azzurrina, occhialoni tipo quelli da sub e sulla schiena una tanica, agganciata con due bretelle, a mo’ di zaino. Dalla tanica parte un tubicino. Ma chi diavolo è? Dove andrà?
«Vuole conoscerlo?», ammicca Gazzoni, «lui è Gianguido».

Gianguido Malacarne è il magazziniere incaricato di sanificare i mezzi dell’azienda: furgoni, escavatori, tutto quanto.
«Come si sta qui dentro... Lei cosa dice?».
Meglio la camicia.
«Sto facendo la sauna, io».
Per quanto, Malacarne?
«Due ore e mezzo, una volta alla settimana. È come stare in un sacco ma non si può fare a meno».
Il tubicino?
«Ci attacco il nebulizzatore, è così che si fa la sanificazione», mentre l’igienizzazione viene fatta ogni giorno, varie volte, con lo spruzzino.
Referente Covid-19 per il reparto amministrativo è Genny Simoni. Anche gli impiegati ogni mattina passano per il termoscanner. Negli uffici la sanificazione dell’aria si fa con le lampade a raggi ultravioletti: «Ne abbiamo comperate due», spiega Andrea Gazzoni, «sono state inserite nell’impianto di ventilazione e rimangono sempre accese».

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