La nuova vita di Stefania

di Luisa Pizzini

La vita comincia a quarant’anni, recita una celebre frase. Stefania Galvagni, che il compleanno a cifra tonda lo festeggerà quest’anno, possiamo dire che abbia bruciato le tappe e la sua seconda vita l’ha già iniziata.

Aveva 35 anni quando è caduta da una parete che stava arrampicando ai piedi del Catinaccio. Era il 2015 e per quell’infortunio ha perso in parte l’uso delle gambe. Ma da quel trauma è come se fosse rinata. «Tu non sarai più quella di prima», le hanno detto. «Io sarò meglio di prima - ha risposto lei senza esitare - sono migliorata anche di carattere».

Stefania, cosa ricorda della caduta?

Era il 28 giugno. Ricordo ogni particolare fino al settimo tiro dell’arrampicata che ne contava in tutto 13 e che stavo affrontando in alternanza assieme ad un amico. Poi ho percorso altri trenta metri e sono caduta. Non so nemmeno per quale motivo, potrebbe avermi colpito qualcosa dall’alto. Da quel momento c’è un vuoto nei miei ricordi, anche se i soccorritori mi hanno raccontato che rispondevo a tono. La prima immagine della mia seconda vita sono le luci dell’ospedale.

Al S. Chiara l’hanno operata alla schiena, è rimasta 12 giorni in terapia intensiva. Cos’ha pensato quando le hanno spiegato della paraplegia incompleta L1?

Ho pensato che quello che stavo vivendo era un incubo e che mi sarei svegliata. Non ricordavo nemmeno d’essere caduta, non poteva essere vero. Quando ho capito che era così, però, ho subito pensato che ce l’avrei fatta. Ho iniziato a muovere le braccia facendo esercizi con una bottiglietta d’acqua già in terapia intensiva.

La determinazione non le manca, ma il percorso della riabilitazione non è stato comunque facile…

Dopo l’intensiva sono rimasta al S. Chiara in pneumologia perché, tra le altre cose, avevo dieci costole rotte. Da lì poi mi hanno portato a Villa Rosa a Pergine: sono rimasta sei mesi. Quel posto e soprattutto la gente che ho incontrato in quel periodo sono diventati la famiglia della mia seconda vita.

Ha mai pensato a come sarebbe ora se le cose fossero andate diversamente quel giorno?

Credo molto nel destino. Quella era la giornata perfetta, ero tornata su una via che conoscevo, la via Fantasia. Non odio la montagna per quel che mi è successo, non ha colpa, tanto che torno in quel posto ad ogni anniversario e il Catenaccio me lo sono fatta tatuare sulla schiena. Certo, poteva andare meglio di così. Ma poteva anche andare peggio.

Ha incontrato chi l’ha soccorsa?

Sì, perché ti senti in debito con chi ti ha salvato. Davide Depaoli era di turno quel giorno e mi ha raccontato che mi hanno trovato nella posizione peggiore: con le gambe penzolanti e la testa in giù. Avevo battuto la parte sinistra della schiena su un pilastrino. Di lui non mi ricordavo, ma ho conservato delle sensazioni di quell’esperienza e quando l’ho incontrato mi sono sentita al sicuro.

Ha fatto molti progressi con la riabilitazione: ora si muove in carrozzina ma può usare anche un tutore. E soprattutto non è mai ferma…

Se devo rimanere ferma un giorno perché sto male mi sembra di impazzire. Ho fatto subito la patente per esempio. Prima, oltre all’arrampicata che è la mia grande passione anche sulle cascate di ghiaccio, facevo corsa in montagna, sci alpinismo. Ora ho provato il monosci, l’handbike, perfino il parapendio sul quale non avrei mai pensato di salire. Odiavo l’acqua per un trauma infantile ed ora nuoto. Mi piacerebbe fare la Marcialonga, provare il tiro con l’arco e tornare ad arrampicare sulle Dolomiti.

In città molti la riconoscono vendendola passare in carrozzina o sfrecciare sulla ciclabile. Com’è muoversi in questo modo sapendo cosa vuol dire camminare?

Rovereto è vivibile rispetto ad altre città, bisogna dirlo. Se non va bene il marciapiede di destra c’è quello di sinistra. È giusto cercare il giusto equilibrio tra chi ha difficoltà a muoversi e chi no.

Fino a dove pensa di arrivare?

Il mio fisioterapista, Maurizio Scartozzi, mi dice sempre che noi lavoriamo e poi dipende dal corpo. Il mio era allenato ed ha reagito molto bene agli stress a cui è stato sottoposto. Anche Maurizio è stato un segno del destino, così come l’istruttore di nuoto: mi spronano a fare sempre di più. È stato così anche al Centro trentino di riabilitazione dove faccio palestra.

Il sorriso sempre sulle labbra, la voglia di fare e l’energia che ci mette la fanno sembrare invincibile. Qual è la sua formula segreta per superare il dolore e le difficoltà?

Ho anch’io i miei crolli. Allora piango, butto fuori tutto e poi rinasco. In meno di un anno, nel 2015, la vita mi ha messo a dura prova, ma ora si fa perdonare. E io guardo avanti.

Nel futuro cosa vede?

Mi devo rifare la famosa domanda: “cosa vuoi fare da grande?” Lavoravo nel campo della ristorazione e ho dovuto lasciare. Ora dedico tutto il tempo al mio recupero, poi si vedrà. Ci ho messo 35 anni a costruire la mia prima vita, ora lavoro alla seconda.

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