I nostri giovani secondo Galimberti: «Iper-connessi, ma isolati, e noi adulti non diamo certo un buon esempio»

di Denise Rocca

Il filosofo e scrittore Umberto Galimberti questa sera alle 21 al Teatro Zandonai di Roveretop terrà una lectio magistralis sul silenzio dei giovani, nell'ambito del festival «Educa». Chiusi in camera o con gli auricolari perennemente infilati nelle orecchie, impegnati a mandare messaggi su un telefonino o postare foto sui social gli adolescenti oggi sembrano non aver nulla da dire agli adulti: da dove viene questa mancanza di dialogo, mancano idee o mancano orecchie che ascoltano?

Dal suo rapporto con loro, cosa ha capito dei ragazzi di oggi?
«Sono perfettamente consapevoli di essere in una dimensione nichilista. Hanno una capacità ironica enorme e l’ironia è una forma di salvezza. Non si rassegnano come invece si rassegnavano una decina di anni fa, ma sono poco educati perché la scuola non educa. Vivono di notte perché di giorno la loro voce è ignorata, nessuno li coinvolge, li chiama, li fa sentire risorse invece di problemi. Pur di non assaporare la loro insignificanza sociale preferiscono rifugiarsi nella notte o peggio bevono, si drogano, finiscono per dormire fino a mezzogiorno non perché dia loro piacere, ma perché così si creano un’anestesia dall’angoscia verso il futuro che preferiscono non guardare, rimanendo nell’assoluto presente».

Internet, che pare averli isolati, non doveva essere una porta aperta sul mondo, un modo per unire, dialogare oltre le distanze fisiche. Abbiamo capito male o lo stiamo usando male?
«È tutto vero, non c’è dubbio che internet sia tutto questo. Il problema è che internet ha cambiato nel giro di una generazione categorie antropologiche che erano radicate nell’uomo dall’origine dei tempi. Si pensi al tempo e allo spazio, due fondamenti della vita umana come la conoscevamo: vengono sconvolti dal mondo virtuale in una velocizzazione per cui ricevi un messaggio e devi subito rispondere, e la risposta non ha il tempo della riflessione ma solo dell’emozione momentanea. E lo spazio non esiste, i ragazzi oggi parlano con i loro amici oltreoceano come li avessero lì vicini. Ma non ci sono davvero, si badi bene: avere l’altro di fronte a sé impegna, è difficile, i ragazzi trovano più facile messaggiare, averlo l’altro dietro a uno schermo, la loro comunicazione è virtuale e questo si trasferisce anche su come intendono i rapporti amorosi per esempio. In passato i padri potevano insegnare ai figli, oggi non più, perché non c’è continuità dal mondo reale a quello virtuale. Gli orizzonti che padri e figli guardano sono diversi. L’unica cosa è sedersi e ascoltare i giovani, ma non per dire poi loro cosa fare, ma per mostrare curiosità del loro mondo, allora i figli parleranno invece di ritrarsi».


Nel suo ultimo libro “La parola ai giovani” lei accoglie le lettere che le hanno inviato i ragazzi. Da dove ricominciare per restituire loro una voce?
«È una domanda che mi fanno spesso, ma è una domanda che nasce dall’ottimismo proprio di una cultura cristiana. Il cristianesimo ha diviso il tempo in passato, presente e futuro stabilendo che il futuro sia sempre qualcosa di positivo, la redenzione, la speranza. Così il futuro nella mentalità occidentale porta sempre qualcosa di positivo. Ma non è vero. Siamo in un’epoca nichilista. Il filosofo Heidegger ricorda, parlando del nichilismo, “è inutile che lo mettiamo alla porta, già da tempo si aggira per la casa. Compito nostro è guardarlo bene in faccia”. Ecco. La gente vuole risposte, ma le risposte presuppongono domande ben poste e ponderate che corrispondano alla reale descrizione del mondo come è. Dobbiamo guardarlo per come è davvero, anzitutto, per pensare di capire cosa fare».

I genitori la contattano spesso per chiederle aiuto nel rapporto con i figli. Qual è il consiglio migliore che si sente di dare loro?
«Ai genitori direi “senti, non chiedermi aiuto, perché se me lo chiedi hai già sbagliato. Con tuo figlio dovevi parlare dai 2 ai 12 anni, quello è il tempo per parlare con loro. Madri e padri non hanno mai parlato con i loro figli: i padri non lo fanno e le mamme si preoccupano soprattutto dei problemi fisici – “mangia”, “metti la maglia” dicono loro - ma non parlano mai in termini psicologici, non chiedono loro “sei felice?”. Se non parli coi figli non puoi pensare che dopo i 12 anni, tempo in cui si abbandona lo scenario parentale per quello sociale, si possa instaurare un dialogo o vengano loro da te a raccontarti qualcosa. Dopo è tardi, a quel punto funziona solo l’esempio e nemmeno questo da parte di molti genitori, è poi così buono. Prima molti genitori tengono una condotta silente e poi una condotta non sempre edificante, il connubio è devastante».

È una visione difficile da accettare. Che fare, quindi?
«Descrivere esattamente il mondo come è, al di là di vane speranze, non ci si può salvare con una descrizione ottimistica che non corrisponde minimamente alla realtà. È un mondo dove Dio è morto, quindi tutte le promesse di futuro, salvezza, progresso e riscatto sociale sono figure che non hanno un significato pesante. Partiamo da un fatto: la maggior potenza ideativa dell’essere umano è fra i 15 e i 30 anni: i grandi del passato hanno fatto le loro scoperte nei loro vent’anni. Che razza di società è quella che non usa il massimo della potenza ideativa dei giovani? Ingaggiamoli questi giovani, cominciamo da qua a ridare loro voce, ruolo e scopo».

 

 

 

 

comments powered by Disqus