Virus, parla un’infermiera «Mi colpiscono gli sguardi dei pazienti, il loro silenzio»

di Luigi Oss Papot

«Io non faccio l’infermiera. Io sono un’infermiera». Basta cambiare un verbo per dare realmente il senso di come i nostri operatori sanitari si sentano gravati di un compito non facile in queste giornate tutte uguali, nelle quali si attende come in guerra il bollettino quotidiano dei contagiati da Covid-19. Ad esprimere questo orgoglio per la sua categoria è un’infermiera del Pronto Soccorso dell’ospedale Santa Chiara di Trento: preferisce rimanere anonima, «perché siamo tutti uguali - confida - e mi sento come i miei colleghi. Non mi sento di avere nulla in più di loro».

È proprio il pronto soccorso di Trento il primo filtro dove giungono i malati da coronavirus. È qui che si mescolano gioie, dolori, speranze, attese, visi, sguardi, emozioni malcelate. Un piccolo universo senza tempo che centrifuga tutto e tutti, dai pazienti ai loro familiari fino, ovviamente, anche al personale sanitario.

Com’è lavorare ai tempi del coronavirus?

Nei mesi scorsi quando vedevo le immagini provenienti dagli ospedali in Cina, non immaginavo che a distanza di poco mi sarei trovata a gestire una situazione d’emergenza del genere. Almeno in cuor mio speravo non accadesse e invece eccomi qui, infermiera ai tempi del coronavirus. Oltre alla divisa di sempre abbiamo aggiunto un sovracamice, 2 paia di guanti, copriscarpe, copricapo, una mascherina fpp2 e occhiali protettivi che a fine giornata ti lasciano un bel solco. Vestiti così si fa fatica: fa caldo, si fatica a muoversi. In Pronto Soccorso c’è un’area dedicata ai pazienti che vengono posti in isolamento: si fanno prelievi, tamponi, radiografie e si somministrano terapie. Si monitorizzano e si sorveglianti i pazienti e si attende il risultato del tampone. Ho usato il termine si attende, perché in questi giorni attendiamo insieme a loro.

Essere infermiere è un qualcosa che dura tutta la vita. Un legame che non può che incrementarsi oggi, in questo momento di emergenza sanitaria, ma che vivrà anche momenti difficili, anche umanamente, soprattutto con i pazienti ed i loro familiari.

In questi giorni quello che mi colpisce sono gli sguardi dei pazienti. Sono sguardi di paura, di timore, d’angoscia. Molti stanno in silenzio. Qualcuno esprime la propria paura. La paura ovviamente è per la polmonite e il tampone positivo. Ne hanno sentito parlare attraverso i media e sono spaventati di far parte dei contagiati. Il nostro vestiario e dispositivi di sicurezza ostacolano un po’ la relazione con i pazienti: siamo bardati e coperti. L’unica cosa che possono vedere sono solo i nostri occhi. Occhi che spero facciano trasparire il nostro esserci. Basta poco? anche poche parole per far capire che noi siamo lì con loro e per loro.

Quali sono le reazioni alle restrizioni per le visite in casi di positività o sospetta positività?

Ai familiari dei pazienti che accedono al pronto soccorso nell’area isolati non viene permesso di rimanere in attesa dei risultati degli accertamenti. Si spiega la situazione e ho visto comprensione da parte loro. C’è tanta preoccupazione da parte dei familiari per le condizioni del paziente, per la paura che quel famoso tampone sia positivo. Sono dispiaciuti di dover lasciare solo il proprio caro. Lo raccomandano e lo affidano a noi. Rimangono sulla porta d’ingresso e se ne vanno con gli occhi lucidi. Per fortuna esistono i cellulari e qualcuno riesce a comunicare così.

Com’è l’umore tra colleghi?

Tra colleghi c’è un buon clima e in questo momento c’è un forte senso di collaborazione: ci si aiuta e ci si supporta. Si fa squadra come sempre, il lavoro in Pronto Soccorso si fa in equipe con medici, Infermieri e oss. Ognuno fa il proprio pezzettino e il nostro obiettivo è centrato sul paziente. Ora è un momento particolare, tutto nuovo, ma gli infermieri hanno una gran capacità di adattamento alle situazioni. Il Pronto Soccorso è un ambiente molto dinamico, non sai mai che ti può succedere quando indossi la tua divisa ed entri in reparto. Un momento sei tranquillo e poco dopo ci sono più urgenze da gestire. In questi giorni il gruppo fa sentire che c’è: una parola, uno sguardo, il chiedere come stai, il dirti di fermarti, di fare una pausa, di dare il cambio nell’area dove sono i pazienti in isolamento, il controllare se ti sei bardato bene, se il sovracamice è chiuso bene, se tutti i capelli sono sotto la cuffia? Poi chiaro, può accadere il momento di tensione. Siamo umani!.

Avete paura?

Certo. Abbiamo paura come avete paura voi. Abbiamo paura di poter essere contaminati. E oltre che paura per noi stessi abbiamo timore per i nostri familiari. Spesso siamo esposti al rischio di malattie infettive, fa parte del nostro lavoro. Ma stavolta è un po’ particolare.

L’altro giorno, in un flash-mob spontaneo, in molti si sono affacciati alle finestre e vi hanno dedicato un applauso. Ma il vostro lavoro è lo stesso ora come in tempi normali. Si percepisce la gratitudine delle persone?

Si percepisce tantissimo in questi giorni, la gente ringrazia e ha parole di elogio nei nostri confronti. Questo mi fa molto piacere. Ci sono persone che hanno fatto recapitare dolci, cioccolatini, caramelle, brioches con biglietti di ringraziamento. Colgo l’occasione ringraziare queste persone. Anche sui social si leggono messaggi di gratitudine, rispetto e di solidarietà nei nostri confronti. C’è chi ci chiama eroi, angeli... Ma io non mi sento un’eroina e nemmeno un angelo, men che meno una missionaria. Sono orgogliosa di essere infermiera e sono la stessa infermiera che ero qualche settimana fa quando ancora non sapevamo nulla di coronavirus, e facevamo il nostro lavoro insieme ai miei colleghi infermieri, medici e oss con i turni di giorno, notte e festivi. Sono grata alle persone che in questo periodo apprezzano il nostro esser vicino a loro o ai propri cari, e spero tanto che tutti voi vi ricordiate di noi anche quando tutto sarà finito. I riflettori si spegneranno e noi continueremo a prenderci cura di voi. Spero vi ricordiate di noi anche quando i tempi d’attesa al pronto soccorso saranno lunghi. Saremo sempre noi, quelli di adesso.

Dal presidente Fugatti al direttore Bordon ai sindaci del Trentino, l’appello corale di rimanere a casa ed uscire solo in caso di reale necessità sembra venire ancora troppo poco rispettato. Vuole lanciare un appello?

Non mi resta che unirmi al coro e dire a voce alta “Restate a casa!”. E condivido l’hashtag che ormai conosciamo tutti, #andratuttobene. Ci voglio credere per me stessa che ci metto tutto quello che posso, per i miei familiari, gli amici e tutti i colleghi.

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