«Un grande funerale collettivo per ricordare i nostri morti»

di Paolo Micheletto

Un rito pubblico per elaborare il lutto collettivo che ha colpito così tante famiglie. Abbiamo il dovere di “rivivere” in forma pubblica e privata la perdita dei nostri anziani, nascosta in fretta. Perché non sarà possibile dimenticare se non ci sarà l’addio che le vittime meritano. Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, ci obbliga a riflettere su come la morte sia stata accantonata in questa emergenza causata dalla diffusione del Covid-19: «Stranamente le istituzioni non hanno ancora pensato a un rito pubblico per la memoria dei morti da coronavirus. È vero che il presidente Mattarella con i suoi messaggi si è sempre dimostrato attento alle vittime, ma non basta».

Professoressa, sull’Espresso lei ha scritto che nell’attuale cultura igienizzante la morte deve essere ripulita, disinfettata, sterilizzata. Perciò viene rimossa dietro le quinte della scena pubblica.

È così. Ma senza un rito pubblico di commiato, una comunità così traumatizzata e ferita come la nostra rischia di non uscire più da questo dramma.

In ogni caso stiamo parlando di qualcosa di simbolico. Non meno importante, ma i funerali alla presenza dei parenti delle vittime non si faranno per molto tempo.

Certo, penso a un forte gesto simbolico, perché il distanziamento sociale impedisce le riunioni fisiche. Penso ad esempio a una data in cui poter celebrare il lutto collettivo, in memoria di tutte le vittime. Ma sarebbe importante iniziare ad affrontare questo argomento così scabroso e finora non affrontato: sappiamo benissimo che le morti senza funerali lasceranno conseguenze pesanti nella mente di molti di noi. Perfino il rito religioso, dove è stato celebrato per ogni singola vittima, è stato ridotto al minimo.

Onorare i caduti come forma di rispetto delle vittime ma anche come impegno per chi è rimasto.

Certo, i morti vanno ricordati come forma di rispetto nei loro confronti ma anche perché la comunità non può dimenticare così in fretta. Rischiamo che venga incrinata la memoria, la nostra memoria. Le immagini della lunga colonna di mezzi militari che lascia il cimitero di Bergamo hanno colpito tutti nella loro drammaticità anche perché sono le immagini di un diritto negato, il diritto del commiato.

Sono immagini che muovono la coscienza anche di chi ha avuto la fortuna di non venire colpito in prima persona o nella propria famiglia dal Covid-19.

Certo, tutto questo riguarda sia coloro che hanno perso parenti, genitori, amici ma anche chi non è stato toccato dalla perdita ma la vive comunque come un dramma di tutti. La perdita di tante persone anziane pesa su tutta la comunità. Non stiamo parlando di numeri, ma di persone, di storie, di donne e uomini che hanno fatto la storia recente delle nostre comunità.

Secondo lei andava evitato quel modo di trattare i morti? Le esigenze sanitarie hanno imposto certe scelte brutali.

Sì, io credo che si poteva fare qualcosa di diverso. Servivano altre modalità. Ma la rimozione della morte fa parte da tempo della nostra società, questa pandemia non ha fatto altro che confermarlo. Lo si è visto anche nell’esempio inquietante delle fosse comuni a New York. È chiaro che ci sono esigenze sanitarie, ma si dovrà capire fino a che punto ha dominato questo meccanismo di rimozione della morte, che tende a cancellare quanto è avvenuto in queste settimane. Lo si vede anche nella comunicazione dei bollettini quotidiani.

In che modo, professoressa Di Cesare?

I comunicati sono asettici nel farci sapere le cifre e le tabelle. In alcune occasioni c’è chi ha detto che i dati erano positivi perché i morti della giornata erano “solo” 540, in calo rispetto ad altri bollettini dei giorni precedenti. Io credo che anche questo abbia contributo a velare il trauma della morte. Ma ripeto: dietro alle cifre ci sono storie e persone, che noi abbiamo l’obbligo di conoscere. Perché tutte le loro vite sono state importanti.

I tempi del coronavirus saranno ricordati soprattutto per il grande sacrificio degli anziani.

Ed è emerso il problema del loro progressivo confinamento. Anche il modo di parlare degli istituti nei quali vengono rinchiusi è gelido, come l’uso di sigle quali Rsa. Vi ricordo che le case di riposo non esistevano nei secoli scorsi, con la famiglia che comprendeva diverse generazioni sotto lo stesso tetto. Certo, tante strutture funzionano bene ma sono comunque luoghi dove le persone vengono parcheggiate in attesa della fine. Dobbiamo fermarci a riflettere: la nostra cultura punta a sconfiggere la morte e a farci vivere sempre più a lungo, ma se costringi queste persone ad essere parcheggiate in non luoghi in attesa della morte questo sistema diventa crudele. Come è diventato crudele il nostro modo di vedere gli anziani e la terza età.

Tutto il sistema assistenziale dovrà essere rivisto.

Io penso di sì, perché siamo davanti a una grande ipocrisia: da una parte la terza età viene definita come il periodo della vita nella quale si possono affrontare tante sfide che prima erano impensabili, dall’altra vengono istituite le Rsa. Io credo che quanto è successo con i nostri anziani pesi molto sulla nostra coscienza.

Per alcune residenze sono già state avviate inchieste giudiziarie. C’è chi pagherà per i propri errori.

Ci sono case di riposo che hanno funzionato molto bene, che hanno chiuso immediatamente le porte al virus e quindi hanno salvato i loro anziani. E ci sono altre che hanno responsabilità e colpe, di cui si sta occupando la magistratura. Ma io credo che l’dea dell’espulsione dell’anziano dalla nostra società vada rivista.

Il coronavirus ha colpito duro tra le fasce più deboli, soprattutto per quanto riguarda le conseguenze economiche e sociali.

No, il Covid-19 non è stato per nulla democratico. All’inizio se ne parlava in questo mondo, ma poi il virus ha messo a nudo le peggiori ingiustizie del mondo, perché stanno pagando i più deboli e i più poveri. Gli Stati Uniti ne sono l’emblema, perché sappiamo benissimo come funziona la loro assistenza sanitaria. Loro sono spietati, in un modo che almeno per ora in Europa non conosciamo: in America chi non è bianco e ricco è molto più esposto.

Professoressa, abbiamo pagato un tributo troppo alto per quanto riguarda i nostri diritti individuali?

Questo è un tema che ha già dato vita a un dibattito. È chiaro che ci muoviamo su un crinale pericoloso, e io credo che il distanziamento sociale e la reclusione di massa non potranno non avere ripercussioni sulla democrazia. Questo è l’interrogativo di molti, anche se mi rendo conto di quanto sia difficile dire cosa si doveva fare in alternativa alle misure che sono state prese.

E la politica uscirà ridimensionata da questa emergenza?

Chi decide ha bisogno di avere gli strumenti giusti, con tutti i dati necessari. Ma ho visto imporsi troppo la figura dell’esperto: in questo modo la politica finisce per non decidere e lasciare ad altri le proprie responsabilità. E così si passa da un governo politico al governo di un comitato di esperti.

Si sono creati troppi precedenti pericolosi? O le disfunzionalità emerse ci costringeranno a migliorare?

È difficile dirlo, anche perché - al contrario delle aspettative che avevamo - la situazione di emergenza si prolungherà parecchio. Proprio perché non torneremo molto presto al “mondo di prima”, molti aspetti del “prima” li dovremo allontanare. Penso sia difficile prevedere come usciremo da questa emergenza, dopo una prova così lunga e difficile, con tante paure. Certo che non c’è da essere molto ottimisti, anche perché le tante ordinanze che abbiamo visto puntano a isolarci e non a creare nuove solidarietà.

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