«Il Coronavirus è qui: dobbiamo proteggerci» L'allarme del virologo Pizzato che richiama all'uso della mascherina e al distanziamento

di Zenone Sovilla

Assembramenti di giovani, rave party in montagna, mascherine troppo spesso abbassate. Le scene viste anche in Trentino negli ultimi giorni inducono a un richiamo sui comportamenti virtuosi che circoscrivono i rischi di contagio.Lo sottolinea anche il virologo Massimo Pizzato, scienziato che da mesi si occupa del nuovo coronavirus nell’ambito delle sue ricerche al Cibio (il dipartimento di biologia dell’università, a Povo).

Professor Pizzato, assistiamo a troppe trasgressioni alle misure essenziali di prevenzione, ma fortunatamente l’epidemia sembra ancora sotto controllo. Ma il virus è sempre lo stesso dell’inverno scorso, giusto?

«Certo, certo. Al momento non c’è alcuna evidenza di mutazioni che ne abbiano attenuato le potenzialità patogene».

Ma allora non ci si potrebbe aspettare un numero maggiore di contagiati, in questa fase 3, con la ripresa di molti contatti fra le persone e appunto azioni di massa incuranti dei rischi?

«In dicembre e in gennaio il virus circolava già e probabilmente buona parte dei contagi erano asintomatici, gli altri sono finiti in ospedale senza che si potesse diagnosticare la malattia: non sin sapeva. Poi l’epidemia ha raggiunto fasce di popolazione più deboli, specie nelle case di riposo e negli ospedali, e il quadro clinico generale è rapidamente degenerato. Oggi a quanto pare sono colpiti soprattutto i giovani, il che riprodurrebbe uno scenario simile a quello di gennaio-febbraio, presumibilmente con molti positivi asintomatici. Laddove si sono individuati focolai, si è visto spesso che con i test di tracciamento si trovavano facilmente parecchi positivi e nelle minoranza dei casi sono state necessarie le terapie o il ricovero».

Il fattore estate, dunque, sarebbe solo marginale, visto il parallelismo tra oggi e gennaio?

«Alcune variabili climatiche potrebbero incidere, ma in realtà la stagionalità dei coronavirus non ha ancora una spiegazione univoca. Forse temperatura e umidità possono incidere in qualche modo. Di sicuro all’aperto il virus si diluisce di più nell’aria e un assembramento fa meno danni di uno al chiuso pur rimanendo assai pericoloso. Il virus oggi è un fenomeno endemico e solo le norme di prevenzione ci salvano da nuove emergenze».

Purtroppo su alcuni fondamentali, sia in Italia sia all’estero, c’è fra i politici chi rema contro.

«Bisognerebbe smetterla con le diatribe sulle mascherine: chi sta nelle istituzioni dovrebbe ripetere all’unisono si tratta di un dispositivo importante. Questa è la verità. Idem per chi, nella comunità scientifica, ipotizza mutazioni che avrebbero reso il virus meno aggressivo. Siamo noi, con i nostri comportamenti, a renderlo meno aggressivo. Proteggendoci, facendo attenzione all’igiene e al distanziamento fisico. All’aperto, per esempio, basta ricordarsi di stare a un metro e mezzo gli uni dagli altri e la diffusione del virus diventa improbabile. Il contesto sociale deve incoraggiare chi attua queste regole auree e bisogna fare attenzione alla falsa sicurezza quando nei gruppi troppe persone, spazientite, si dimenticano colpevolmente della prevenzione».

Distanza e mascherine sono collegate al concetto di carica virale. Ce lo spiega in parole povere?

«Sappiamo che questo virus provoca danni gravi in profondità, all’interno dei polmoni, ma non nelle prime vie respiratorie. Quindi la quantità di materiale infettante introdotta nell’organismo è decisiva: se è elevata aumentano le probabilità che non venga intercettata dalle difese dell’organismo e finisca per raggiungere gli alveoli e scatenare un pesante processo degenerativo. L’uso collettivo della mascherina previene o riduce la trasmissione virale. Se lo avessimo fatto prima di febbraio, non avremmo vissuto l’epidemia nelle proporzioni dei mesi seguenti. Ma non sapevamo che il virus era già fra noi».

A proposito di diffusione, riprende quota l’ipotesi che le persone contagiate siano notevolmente più di quelle stimabili con i test sierologici, perché molte (asintomatiche o con effetti leggeri) risultano negative agli anticorpi, avendo sviluppato solo o prevalentemente la cosiddetta immunità «da cellule T». Come valuta questo aspetto?

«È corretto. Si può ritenere che già nei primi mesi dell’anno un certo numero di persone abbia sviluppato l’immunità al Sars-CoV-2 tramite linfociti T e che questo gruppo sociale sia più vasto di quanto finora ipotizzato. Ovviamente non è possibile quantificarlo, ma a vedere come si individuano facilmente i positivi attorno a ogni singolo focolaio, l’ipotesi pare fondata. Il virus circola sottotraccia e quando un sintomatico ci indica un possibile focolaio, il concatenamento di contagiati salta subito fuori. Perciò dobbiamo ricordarci di proteggere noi stessi e gli altri, rispettando semplici regole sanitarie».

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