«Covid, resistere un mese e mezzo». Benetollo (Apss) chiede a tutti un ultimo sforzo

L'intervista al numero uno dell'Azienda sanitaria

di Matteo Lunelli

«Ci attendono ancora settimane durissime. Ma sarà una questione di un mese e mezzo, poi vedremo la luce in fondo al tunnel».

Il direttore generale Pier Paolo Benetollo ha sulla scrivania una serie di fogli. Ci sono grafici e numeri, report e analisi. Quei dati sono il pane quotidiano, da mesi. Servono per capire, per prevedere, per mettere in campo delle strategie. La situazione ad oggi è seria, inutile girarci intorno. Il virus è tornato a circolare con forza e l'effetto si è visto subito sugli ospedali.

Dottore, come siamo messi? Ne usciremo mai?

Torniamo indietro di quasi dodici mesi: la prima settimana di aprile dello scorso anno abbiamo registrato il picco. Poi ci è voluto un mese per scendere, con l'aiuto della stagionalità, ma anche dei comportamenti individuali. Quest'anno andrà allo stesso modo.

E siamo anche più preparati, no?

Ci sono caratteristiche diverse: conosciamo meglio il nemico, abbiamo molte più informazioni. C'è più consapevolezza di cosa fare e non intendo solo in ospedale. Sarò ripetitivo ma usare le mascherine, restare distanziati e aprire le finestre è la ricetta. E poi, ancora più importante, abbiamo i vaccini.

Lo scorso mese c'è stato un calo netto dei decessi: la spiegazione è che i vaccini funzionano e che stiamo proteggendo migliaia e migliaia di anziani.

A prescindere da colori, quindi, dobbiamo stringere i denti ancora un po'.

Ci attende un periodo difficile, ma sarà una questione di poche settimane. Resistiamo ancora per un mese, un mese e mezzo, e da metà aprile andrà meglio. E non ci sarà una ripresa autunnale, questa volta.

Per merito dei vaccini?

Esatto, per merito dei vaccini. La luce in fondo al tunnel c'è, è accesa. Bisogna resistere ancora un po'.

Gli ospedali sono ancora sotto fortissima pressione.

Sì: se i decessi sono calati i ricoveri no. Quello che è cambiato è che i pazienti hanno dieci anni in meno di media, perché gli over 80 li stiamo proteggendo. Andare in ospedale per il Covid rappresenta un problema per le persone interessate, ovviamente, ma in generale lo è anche per i vari reparti.

I ricoveri in Terapia intensiva hanno subito un'impennata, mentre quelli negli altri reparti crescono sì, ma molto lentamente. Perché?

In realtà c'è un dato più sensibile da analizzare: il numero totale di pazienti ricoverati cresce leggermente, è vero, ma a crescere molto è il numero di ricoveri quotidiani. Per settimane tra gennaio e febbraio entravano 10 persone al giorno, adesso siamo a 20.

C'è un virus più aggressivo?

No, i numeri e le analisi non dicono questo. So che vuole arrivare alle varianti: dico subito che sono più contagiose ma non più gravi. A parità di contagi non registriamo più ricoveri. Terapia intensiva: siamo nuovamente pieni, al netto della capacità di fare l'effetto "fisarmonica". Anche qui va fatta un'analisi. La seconda ondata non è mai finita: se in autunno siamo partiti da zero pazienti Covid in Rianimazione e siamo arrivati a un picco di 55, adesso siamo poco sotto ai 50 ma partendo da 24.

Lei è l'allenatore di una squadra che ha dovuto giocare, e sta continuando, 365 partite difficilissime in 365 giorni. E se all'inizio c'erano i tifosi a sostenere, adesso l'impressione è che gli spalti siano mezzi vuoti.

La popolazione deve comprendere e apprezzare lo sforzo che sta facendo tutto il personale sanitario. La stanchezza e il peso anche psicologico di questi dodici mesi si fanno sentire. Devo anche dire che non ho richieste da parte del personale: sono stremati ma sanno che non ci sono alternative. "Noi ci siamo" è quello che dicono. Restando nella metafora sportiva, da allenatore il messaggio ai tifosi è di non dimenticarsi mai di questi giocatori che sono in campo da un anno con un pensiero opprimente. E poi c'è il solito messaggio: i tifosi possono essere tutti d'aiuto. Come? Mascherine, distanze, finestre.

La stanchezza c'è anche tra i cittadini.

È vero ed è normale che sia così. Dobbiamo pensare ai rischi che ci sono di poter infettare le persone anziane. Questo pensiero deve aiutarci a resistere ancora per un mese e mezzo, poi andrà meglio. Facciamolo per il personale sanitario, facciamolo per i nostri cari. Sappiamo come bisogna comportarsi. Se si fa una festa a San Valentino in un locale chiuso poi ci sarà un focolaio. Si contageranno prima i ragazzi, poi i genitori. Ma poi, dopo un mese, il virus arriverà ai nonni e ci saranno ricoveri e decessi.

Nessuno tifa per le chiusure, ma per difendere gli ospedali a volte sono necessarie. L'impressione nella seconda ondata - esageriamo, volutamente, fermo restando il grande affetto per entrambe le categorie - è che abbiamo voluto difendere più i baristi degli infermieri.

Torniamo al tema dei comportamenti. Le zone, in fin dei conti, sono fatte per ricordarci che rispettiamo poco le regole (rosso), che dobbiamo fare di più (arancione) o che stiamo andando abbastanza bene (giallo). Le zone sono solo un sistema per aumentare l'adesione alle regole. Lo dico ancora? Mascherine, distanze, finestre: facendo questo non servirebbero nemmeno i colori.

State tenendo d'occhio, in particolare, la Rotaliana. "Colpa" dell'Alto Adige?

Ogni giorno controlliamo i dati e i trend. Certo, il virus i confini non li riconosce: basta guarda i numeri del Tirolo qualche settimana fa, poi dell'Alto Adige, poi di alcune aree del Trentino. Risulta piuttosto evidente che ci sono più casi nei territori vicini a quelli più colpiti.

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