Toto Forray, dai campetti di Buenos Aires a condottiero dell'Aquila in Europa

Michael Anthony Roman Nardi, detto Mike, è un giocatore di pallacanestro statunitense con cittadinanza italiana, classe 1985.

Chi mercoledì sera al PalaTrento si è potuto godere lo spettacolo offerto dalla Dolomiti Energia - ma pure chi molto più pigro si è guardato in televisione l’Aquila per lunghi tratti dominare una squadra di Eurolega come il Pinar Karsiyaka Izmir - in una certa misura deve ringraziare anche lui. E pure i vertici societari dell’allora Fulgor Forlì.

Perché? Presto detto. Perché in una umida sera dell’inverno romagnolo del 2011 a Forlì decisero di ingaggiare quel ragazzo (che per altro nel suo curriculum aveva 13 partite e 3 punti con l’Olimpia Milano) e tagliare il loro playmaker titolare. Un certo Pablo Andrés Forray.

Col senno di oggi e con ancora negli occhi la prestazione di mercoledì sera del capitano della Dolomiti Energia verrebbe da chiedersi se a Forlì a quei tempi ci fosse un consumo eccessivo di Sangiovese.
Non perché Nardi non fosse un buon giocatore - a Forlì ha avuto una media di 10 punti a partita, poi ha portato Mantova in Lega Gold, prima di tornare alla prestigiosa Villanova University come assistente -, ma perché forse i dirigenti romagnoli non intuirono che la grinta, il carattere e la gran voglia di lavorare per migliorare il proprio gioco avrebbero portato in alto quel ragazzino partito 8 anni prima da Buenos Aires per l’Italia con una valigia di vestiti e un mare di passione per la palla a spicchi. «Quando l’ho conosciuto - raconta sua moglie Alessandra Biserni, forlivese doc - non immaginavo lontanamente dove sarebbe potuto arrivare. Anche perché nemmeno sapevo che giocasse a basket. Poi, quando ho iniziato a seguire le partite, pur non intendendomene tanto, ho capito che la grinta, la voglia e la passione l’avrebbero portato lontano. Non mi immaginavo potesse diventare capitano di una squadra che gioca in Europa, ma che avrebbe fatto bene il suo lavoro l’avevo capito».

L’aveva compreso Alessandra, novella del basket, non la società di Forlì. «Non si è mai buttato giù. Sicuramente ci rimase male quando finì con Forlì perché fu un taglio inaspettato. La batosta fu pesante ma non credo che avesse mai accantonato le sue speranze di arrivare in serie A. Si è sempre messo in gioco completamente. Si è fatto forza di quell’esperienza e quando è arrivato a Trento ha dato tutto se stesso per farcela».

Quel cognome di origine ungherese che nei primi anni Duemila si è fatto conoscere nei campionati regionali veneti, poi nelle serie minori nazionali, ora è noto ai grandi scout delle più prestigiose società di pallacanestro europea.
Chiedere informazioni ai campioni di Turchia del Pinar, ma pure ai baschi di Bilbao o agli slavi di Lubiana. Squadre che, almanacchi storici alla mano, hanno avuto ruoli non secondari nella storia del basket al di qua dell’Atlantico. «Sicuramente in testa lui aveva la speranza di poter arrivare lontano» continua Alessandra. «Di sicuro quello è l’obiettivo di ogni giocatore. Toto, però, è sempre stato con i piedi per terra. Ha lavorato, si è impegnato e ha scalato piano piano tutte le vette per conquistarsi la serie A».

Prima dei 30 anni ci è arrivato. E il merito è tutto suo. «Fuori dal campo è un tipo molto tranquillo, una persona che cerca sempre di metterti a tuo agio e di farti vivere con una certa leggerezza anche i momenti più difficili» è il ritratto che ne fa la moglie. In casa si parla di basket.

«O meglio: lui ne parla, analizza le partite e le sue prestazioni. Io cerco di assecondarlo e aiutarlo a focalizzare le cose più importanti».
Non è uomo da numeri Toto. In campionato viaggia a 5 punti di media a partita, con il 53.5 per cento nel tiro da 2, il 30 per cento da 3, 2.2 rimbalzi, 1 palla recuperata e un paio d’assist. In Eurocup vanta cifre addirittura migliori: 7.5 punti, 2.4 rimbalzi, 2 assist. Non che non sappia segnare, però. Quando serve Toto il canestro lo «vede». Eccome se lo vede. Tanto a Forlì in una partita di finale playoff quando segnò 28 punti con 7 assist pur avendo una mano rotta, quanto l’altra sera contro i campioni turchi del Pinar: 16 punti, 6 rimbalzi, 5 assist.

Il suo è un contributo soprattutto tattico e agonistico, da condottiero, da hombre cojonudo. Ma intendiamoci, non solo sudore e difesa. No. Anche intelligenza e tecnica. Forray è uno che sa leggere le partite. L’altra sera, per esempio, ha capito prima degli altri che per gli americani di Trento non era la giornata buona. Così si è preso la squadra sulle spalle e, oltre a difesa, palle recuperate e assist, si è messo a bombardare il canestro avversario. In altre occasioni, se vede che i Lockett o i Sanders di turno sono «in vena», non esita a sacrificare i propri tiri per lasciare spazio a loro.

Scontato dire che «da grande» sarà un ottimo allenatore.

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