Soldato Kelly: «Lavoro e prego Dio che mi indichi la strada»

di Daniele Battistel

Quando da piccolo mi chiedevano chi fosse il mio mito non rispondevo mamma o papà, ma facevo solo un nome: Kobe. Ha rappresentato un modello per chiunque voglia eccellere nel basket e nella vita».

Così una settimana fa Rashard Kelly dava il proprio addio a Kobe Bryant. Per il centro della Dolomiti Energia il "Black Mamba" è stato più di un esempio. Di sicuro la sua fonte d'ispirazione, l'ideale da perseguire con impegno e dedizione.
Non a caso i concetti di lavoro duro, concentrazione, perseveranza ritornano spesso nelle parole di Rashard, in una sorta di "mamba mentality" che il 24enne della Virginia coltiva fin da adolescente, quando lasciò Fredericksburg per "arruolarsi" nel liceo militare a più di 200 chilometri da casa.

Rashard, nel suo curriculum sportivo risulta che prima di frequentare il college a Wichita State lei ha trascorso due anni alla Massanutten Military Academy. Voleva fare il soldato?

«No, la mia era una scelta più che altro legata al basket, visto che in quella scuola c'è un ottimo programma di pallacanestro che mi ha permesso di poter poi accedere ad un buon college. Comunque quei due anni sono stati importanti per me».

Cosa ne ha ricavato?

«Avevo 17 anni. Dovevo svegliarmi alle 6, marciare e poi, dopo la colazione, cominciavano le diverse attività, tra cui allenarsi a sparare con il fucile. Devo ammettere che quell'esperienza mi ha forgiato nel comportamento, nell'organizzazione, nella gestione del tempo e delle energie».

A Wichita lei ha studiato Sport Management: cosa le piacerebbe fare una volta conclusa la carriera di atleta?

«Spero di aver tanti ani da giocatore davanti a me, ma in ogni caso è un tema su cui sto già interrogandomi. Mi piacerebbe rimanere nell'ambiente, anche se il sogno sarebbe quello di potersi alzare ogni giorno alle 10 e pensare a come gestire i soldi guadagnati (ride) . In realtà credo che non sarebbe male rimanere in questo business, restituendo ai giovani gli insegnamenti che ho ricevuto io da parte di tanti educatori».

Nell'agosto 2018, alla conclusione degli studi, si è trovato catapultato dall'altra parte del mondo, a Perm, in Russia, per la sua prima stagione da atleta professionista.

«Devo dire che è stata una grande esperienza. Era il mio primo anno da professionista, in un campionato importante come la Vtb. Sono stati 10 mesi importanti perché ho dovuto imparare ad essere professionale in tutti gli aspetti della vita, ma alla fine è andata bene: da rookie sono finito nella selezione All Star e ho vinto la classifica dei rimbalzisti».

In Italia già l'anno scorso si diceva che coach Brienza la volesse a Cantù per sostituire Udanoh. Quest'estate siete arrivati assieme a Trento: che legame c'è con l'allenatore dell'Aquila?

«A dire la verità la storia che mi voleva a Cantù l'ho scoperta soltanto quest'anno. Il coach l'ho incontrato per la prima volta in estate a Las Vegas alla Summer League e mi ha fatto un'ottima impressione. È attento, preparato, mi trasmette fiducia e crede in me. Non posso che ringraziarlo per l'opportunità».

Per lei cos'è l'Nba? Un obiettivo o un sogno?

«L'Europa mi piace molto e voglio giocarci al più alto livello possibile. Ad altro non penso».

Rashard, in quali aspetti del gioco ritiene di dover ancora migliorare?

«Io cerco di dimostrare quello che valgo in ogni partita. Devo essere più costante in tutte le fasi del gioco e ogni giorno lavoro per migliorare e diventare una delle prime opzioni offensive della mia squadra tirando da sotto, ma anche da tre. So che l'impegno quotidiano prima o poi pagherà e qualcuno mi noterà sul suo taccuino».

Chi è per lei il miglior giocatore attualmente in circolazione?

«Ho due nomi: LeBron James e Kawhi Leonard. Il primo perché è semplicemente... dominante. L'altro perché fa sembrare facili anche le cose più difficili e riesce sempre a fare quello che ha in testa. Sono due giocatori fortissimi, il cui successo è figlio del grande lavoro fatto».

Chi è il giocatore più forte con cui ha giocato?

«Tra i miei compagni di squadra direi Fred VanVleet, che era a Wichita State con me, e ora play dei Raptors campioni Nba. Tra gli avversari del college direi Trae Young degli Atlanta Hawks».

Lo scorso novembre è diventato padre di Rashard junior. Questo evento le ha cambiato la vita?

«Credo che per tutti nella vita ci siano giorni buoni e giorni meno buoni, ma quando torno a casa, vedo il mio bimbo e lo abbraccio, beh, mi fa scordare amarezze e delusioni. Me lo sto godendo tantissimo».

Lei crede in Dio?

«Sì, certo. Appartengo alla Chiesta Battista».

Cosa è solito chiedere a Dio?

«Che mi guidi e che mi indichi la strada da seguire, restando sempre una delle cose importanti della mia vita. Dal canto mio cerco di fare del mio meglio ogni giorno, se poi ho una mano anche da Lui...».

Si interessa di politica?

«No. Per nulla. Preferisco non dare opinioni».

Io volevo chiederle cosa pensa del presidente Trump.

«È un po' triste vedere che tutto ormai è trasformato in intrattenimento. Penso che sia il primo presidente che ha certi comportamenti».

Nella sua vita ha mai subìto discriminazioni?

«Sì».

Immagino per il colore della pelle.

«Di solito per quello».

E come reagisce?

«Non posso fare altro che andare avanti. Guardi, mi è accaduto anche qui in Europa, dopo certe partite o con messaggi sui social network. È triste».

Qual è l'insegnamento più importante che, a questo proposito, s'impegnerà a trasmettere a suo figlio Rashard junior?

«Gli insegnerò che rispondere è peggio. Gli dirò che se qualcuno avrà parole ostili o di odio nei suoi confronti non necessariamente significa che lui avrà sbagliato. Cercherò di far sì che i miei princìpi diventino i suoi. Penso che sia il miglior lavoro che un padre può fare con suo figlio».

L'esperienza di lavoro e di vita in Italia cosa le sta dando?

«Qui ho l'opportunità di crescere come atleta, di giocare in una squadra che ha grandi ambizioni. È tanto».

Trento ci sarà anche nel suo futuro?

«Questo non lo so. La mia mentalità è quella di pensare giorno dopo giorno. Altrimenti credo che rischierei di non tenere alto il livello della tensione e magari diventare pigro».

E chi dice che lavora per crescere ogni giorno non può permetterselo.

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