Strage di Stava, oggi ricorre il 35° anniversario Nel crollo dei bacini di Prestavel morirono 268 persone Tesero, la memoria trasmessa ai giovani

di Andrea Tomasi

La musica di sottofondo è sempre la stessa.
Più che musica è suono, rumore, quello delle banconote fruscianti. C’erano ancora le lire quando a Stava (comune di Tesero, Val di Fiemme) il crollo dei bacini di Prestavèl provocò la morte di 268 persone. 70 di loro erano di Tesero: uomini, donne, bambini, anziani, turisti, gente che lavorava in alberghi e ristoranti. 30 feriti, un dramma consumatosi il 19 luglio 1985. Non c’era ancora l’euro. Non c’era internet e non c’erano i telefoni cellulari.

Non c’erano - perché non erano ancora nati - Giacomo Goss (22 anni) e Giulia Morandini (19 anni). Massimo Cristel, classe 1983, aveva solo due anni. Sono giovani abitanti di Tesero con cui, nella sede della Fondazione Stava 1985, con il direttore Michele Longo e il sindaco di Tesero Elena Ceschini, abbiamo parlato in occasione dell’anniversario numero 35.

Sono volontari che hanno operato e operano nella fondazione presieduta da Graziano Lucchi, per fare memoria. Nella sede di Stava e sul sito web ci sono oltre 2600 documenti, tra cui 1600 fotografie e 85 ore di videointerviste a testimoni diretti di quella tragedia. È la memoria di chi ha vissuto in quell’epoca, fatta di «industria di rapina» (per usare le parole di Longo) in un territorio montano che oggi vive principalmente di turismo.
La memoria passa attraverso i ricordi dei familiari e le interviste esclusive raccolte in collaborazione con la Fondazione Museo Storico di Trento.

Il rumore è quello dei soldi, perché ogni dramma, che si traduce nella morte delle persone o nella devastazione del territorio, è causato dal denaro: dalla volontà di farne a tonnellate, dalla volontà di risparmiarne, sulla pelle della gente. Il Vajont insegna e Stava, si sa, è il Vajont trentino. Il rumore è quello delle banconote passate di mano in mano e quello del boato sentito a chilometri di distanza. Alle ore 12. 22’ 55? del 19 luglio 1985 cedette l’arginatura del bacino superiore dell’impianto di fluorite che crollò sul bacino inferiore che a sua volta non poté resistere.

La massa fangosa, composta da sabbia, limi e acqua scese a valle alla velocità di quasi 90 chilometri orari e spazzò via persone, alberi, abitazioni, tutto, fino a raggiungere la confluenza fra il rio Stava e il torrente Avisio. Il suono possiamo immaginarlo. L’odore, di fluorite e, nei giorni a seguire, di morti, è più difficile da descrivere. Fabrizio Goss, papà del giovane Giacomo, quel giorno era poco sopra i bacini minerari. «All’epoca la mia famiglia abitava a Varena. Mio papà, con nonno Agostino, era nei boschi a tagliare la legna. Pensarono che il boato fosse stato prodotto da qualche jet militare (che allora facevano voli radenti, come ricordano al Cermis,ndr). Se ci penso, io sono vivo ”per caso”. Mia mamma Giuseppina, di Tesero, in passato aveva fatto “la stagione” turistica nella cucina dell’Albergo Erica (travolto dai fanghi, con villeggianti e dipendenti, ndr). E invece quell’anno aveva trovato impiego in fabbrica».

Massimo Cristel, per la Fondazione e il Museo Storico, ha potuto raccogliere testimonianze uniche di chi ha vissuto quei giorni: video-interviste che fanno parte del patrimonio del Centro Stava: «I ricordi sono tanti. Non posso dimenticare l’incontro con un anziano abitante di Tesero, che oggi non c’è più. Per tutto il tempo dell’intervista ha tenuto gli occhi bassi. Sotto i fanghi e i detriti aveva perso la moglie e quattro figli. Solo alla fine è riuscito ad alzare la testa e guardare nell’obiettivo della telecamera. Un altro incontro importante è stato quello con un soccorritore: un uomo lombardo che nel 1985 in Trentino stava facendo il servizio militare. Con tanti altri ragazzi era stato spedito a Stava a scavare, a cercare possibili sopravvissuti, ad estrarre i morti. Ha pianto per tutto il tempo dell’intervista: una storia raccontata fra i singhiozzi, ma è stato lui a chiedere di non fermarci con le riprese. Per lui è stato liberatorio. Dopo 20 anni era veramente riuscito a parlarne».

Giulia Morandini parla del nonno materno, Adriano Iellici, che all’epoca dei fatti era sindaco. «Non ha mai voluto parlare di quei giorni. La nonna mi ha raccontato che quel periodo, dopo la tragedia, è stato difficilissimo. Lui aveva tenuto da parte tutti i giornali in cui si parlava di quanto accaduto». Nonna Carmela Gilmozzi ha provato a descriverle quei momenti di terrore nella palestra, dove venivano portati i cadaveri o ciò che ne restava. Lei andava a pulirla la palestra...».

Il capitolo del senso di colpa collettivo è stato a lungo aperto in Val di Fiemme. «È inconscio - spiega Longo - Qui sono morti tanti turisti e tu ti senti come un padrone di una casa crollata: il proprietario che non ha messo al sicuro i suoi ospiti». I ragazzi che abbiamo incontrato parlano di un Paese, l’Italia, dove mancano la memoria e la cultura della prevenzione: quel principio di precauzione, invocato dalle associazioni di cittadini, quasi sempre inascoltate dalla politica. Il caso del crollo del Ponte Morandi è solo uno degli ultimi episodi che fanno gridare la gente. C’è poi il capitolo della responsabilità che grava sugli amministratori pubblici (se ne parla in «Solo Fango», un saggio/romanzo dello scrittore Jack Narciso). Ne ha parlato con noi la prima cittadina Elena Ceschini perché la difficoltà maggiore, per un amministratore pubblico, è capire i problemi del territorio e prendere le decisioni giuste. «Ma c’è un momento in cui ci si deve affidare ai tecnici». Affidarsi e fidarsi, due verbi sempre più difficili da utilizzare. Ci s fidò, sbagliando, delle rassicurazioni di Trento, del Distretto minerario della Provincia autonoma e dalla Regione.

Il direttore della Fondazione Michele Longo ricorda che nel 1974 (11 anni prima della tragedia) l’allora sindaco Giuseppe Zanon, a fronte della richiesta dell’industria mineraria di un ulteriore sbancamento di bosco per fare spazio all’impianto, chiese una verifica sullo stato di stabilità della struttura. Parliamo di un sito che, dopo la seconda guerra mondiale, venne gestito dalla società Montecatini, alla quale subentrarono fino al 1980 società del gruppo Montedison e quindi dei gruppi Egam ed Eni. Dal 1980 al 1985 fu gestita dalla società Prealpi Mineraria. Nel 1985 l’argine del bacino superiore aveva raggiunto l’altezza di 34 metri. Le discariche contenevano circa 300.000 metri cubi di materiale ed avevano un’altezza di oltre 50 metri. Longo spiega che i ruoli di controllore e controllato si erano sovrapposti: «L’amministratore delegato Alberto Bonetti, sollecitato dal Servizio minerario della Provincia di Trento, fece fare una relazione ad un tecnico dell’azienda, Antonio Ghirardini (entrambi ingegneri). Questi scrisse: ?La pendenza dell’argine è eccezionale e la stabilità è al limite?. Ma a Trento e a Tesero arrivò una relazione molto tranquillizzante». Via libera. Tutto a posto. Una serie di timbri che crearono le basi per il dramma. Per i reati di disastro colposo e omicidio colposo plurimo Bonetti e Ghirardini vennero condannati, con sentenza definitiva nel 1992. Con loro i direttori succedutisi Fazio Fiorini, Alberto Morandi, Vincenzo Campedel, Giuseppe Lattuca, il direttore della Spa Fluormine Sergio Toscana, Aldo Currò Dossi (capo del distretto minerario della Provincia), Giulio Rota (presidente della Prealpi Mineraria) e Giuliano Perna (dirigente del Distretto minerario regionale). Nessuno ha scontato la pena detentiva. Il risarcimento del danno per oltre 700 persone, in sede civile, è stato di oltre 132 milioni di euro. La somma fu liquidata in via transattiva nel 2004 da Edison, Eni-Snam, Finimeg e Provincia di Trento. Prealpi Mineraria, nel frattempo fallita, non risulta aver versato alcuna somma alle famiglie delle vittime.

Le vittime saranno ricordate oggi con una messa alle 10 al cimitero monumentale di Tesero, celebrata dall'arcivescovo Lauro Tisi.

Sotto, un momento del confronto nella sede della Fondazione Stava 1985

 

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