Giovane medico arcense a Brescia: "Qui in terapia intensiva la metà dei pazienti muore"

di Elena Piva

La lotta contro il tempo per creare nuovi posti in terapia intensiva, nonostante le modifiche strutturali ne richiedano il doppio.
La paura di portare il virus a casa, una volta libero dal kit protettivo.
Tredici ore nel reparto “rosso” contaminato e l’incessante attenzione ai parametri dei pazienti. Questi sono solo alcuni dei momenti indelebili che costituiranno il vissuto di Tommaso Togni, giovane medico arcense e rianimatore nel reparto «Covid» del civile di Brescia. Classe 1988, Tommaso ha cominciato nel 2007 gli studi presso la facoltà di Medicina a Brescia, città in cui si è specializzato in rianimazione ed è stato assunto alla fine del 2019 dal presidio degli «Spedali Civili». Prima del contratto bresciano ha esercitato sei mesi nella struttura «Addenbrooke’s Hospital» di Cambridge.

Cosa ti ha spinto ad intraprendere questo percorso lavorativo?

«I miei genitori sono medici, ma non mi hanno mai suggerito il loro mondo. Terminato lo scientifico al Maffei, mi sono iscritto a Medicina e ne sono rimasti felici. Sono un po’ preoccupati ora, ma consapevoli che si tratta del lavoro di sempre. Fino a due mesi fa gestivo tubercolosi e meningiti nel silenzio».

Com’è cambiata la tua quotidianità con l’emergenza?

«Sono aumentati i pazienti quanto la gravità della loro situazione, il lavoro è passato dalle 160 ore mensili alle 270. Abbiamo raddoppiato i posti letto in terapia intensiva: prima ne avevamo 10, più due box isolati per gli infettivi. Poi abbiamo sigillato aree, smontato armadi, abbattuto pareti per arrivare a 22 posti».

Esiste un momento più critico degli altri nell’arco della giornata?

«La notte, impossibile riposarsi. Non esistono veri e propri turni, ci alterniamo: dalle 20 alle 9 e dalle 9 alle 20-21. Settimana scorsa ho fatto tre diurni consecutivi e una notte».

Se potessi, cosa cambieresti nel sistema sanitario italiano?

«Il collo della bottiglia che limita il trattamento dei malati è la mancanza di posti. La terapia intensiva non è un letto e un respiratore, bensì un’équipe affiatata con un’ossessiva cura per i dettagli. Se hai poco personale, la qualità del servizio cala in modo inevitabile. Inoltre, gli organi competenti hanno dipinto la situazione più lieve della realtà: abbiamo avuto ventenni e trentenni intubati, non solo anziani pluripatologici».

Quali sono, se ne hai, i timori?

«Le nostre preoccupazioni sono rivolte ai pazienti, il peggioramento clinico è rapido e drastico. La paura di essere contagiato e portare il virus a casa c’è, la mia fidanzata è Pediatra».

La situazione nel bresciano?

«Siamo sempre stati muniti di dispositivi di protezione individuali, grazie alle donazioni cinesi abbiamo anche le tute. In questi ultimi giorni, il personale del pronto soccorso ha avuto accessi ridotti. I reparti sono meno carichi, ma resta l’importante mole di lavoro. Le terapie intensive stanno collassando: di fatto, se il paziente non richiede intubazione invasiva rimane in altri comparti».

Quali episodi stanno segnando questo calvario?

«Il gruppo lavorativo è ottimo, ci si dà sempre una mano e questo aiuta quando sei consapevole della carenza di posti e devi fare una lista di priorità sulle cure da dare a determinate persone. La mortalità è del 50% in terapia intensiva: 1 su 2 non esce».

Ti unisci ai colleghi che ripudiano l’appellativo di “eroi”?

«Sì, credo sia stupidissimo. I medici fanno il proprio lavoro, gli infermieri sono ipercarichi e sottopagati. Siamo in prima linea per una radicata coscienza lavorativa. Non per un grande riconoscimento o una pacca sulla spalla. Ci sono diritti ma anche doveri. Il mio stipendio, con centinaia d’ore in esubero, ha il 40% di trattenute. Il sistema sanitario non ha finanziamenti, per una mal funzione politica, se la gente non paga le tasse la sanità non campa. Il mio lavoro è curare tutti, però ognuno raccoglie quanto semina».

Cosa ti aspetti nelle prossime settimane?

«L’unica via d’uscita è mantenere le misure di isolamento sociale. È impossibile gestire l’epidemia senza tali disposizioni. Alle persone dico, con il cuore in mano, di restare a casa: la gente in terapia intensiva muore».

Cosa farai non appena il Paese potrà ripartire verso una sorta di normalità?

«Uscire di casa e tornare nell’Alto Garda. Mi manca, buona parte della mia vita è lì: la famiglia, gli amici, le mie amate montagne. Ho bisogno di verde».

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