«La mia fuga dal Sudafrica è successo tutto in fretta ed è arrivato il lockdown»

di Tommaso Gasperotti

La valigia preparata in fetta e furia. Il cuore in gola. E i rand, la moneta locale, ancora in tasca. Jessica Cuel, 29enne, dottoranda dell’Università di Trento, dopo un’odissea durata più di 30 ore è riuscita a rientrare a casa dal Sudafrica con l’ultimo volo disponibile.

«La situazione - racconta la studentessa, ora a Rovereto in quarantena fiduciaria - è precipitata nel giro di pochi giorni. È stata una decisione difficile, ma il rischio di rimanere bloccata a 10mila chilometri di distanza, lontana dalla mia famiglia e per chissà quanto tempo, mi ha convinto a salire sull’ultimo volo garantito per l’Italia».
La notizia del primo contagiato Covid-19 in Sudafrica - un cittadino rientrato dall’Italia - risale a meno di due settimane fa. «Mi ricordo esattamente il brivido provato in quel momento», riavvolge il nastro Jessica mentre controlla la mappa in tempo reale del contagio. La risposta del Sudafrica non tardò ad arrivare: concerti ed eventi rinviati, scuole e università chiuse, i bar aperti solo fino alle 18. Poi, restrizione su restrizione, l’annuncio del presidente Ramaphosa di chiudere le frontiere ai Paesi ad alto rischio, Italia in primis.

«Non appena si è cominciato a vociferare un lockdown, la paradigmatica ineguaglianza del Paese si è palesata nelle reazioni dei suoi abitanti: le catene di supermercati “per ricchi” svaligiate in pochi giorni, un fuggi fuggi generale di studenti stranieri e i primi segni di insofferenza verso italiani ed europei. Per strada la gente urlava “fuck coroonaaa” dai finestrini delle macchine», racconta la giovane, in Sud Africa per investigare il rapporto tra Ong ambientali sudafricane e comunità locali.

«Una bomba ad orologeria», l’ha definita Bruce Bassett, data scientist dell’Università di Città del Capo. Perché in questi contesti il divario sociale non è un’opzione. Da una parte mamme bianche in mascherina con le macchine piene di scorte di carta igienica, dall’altra giovani uomini all’improvviso senza un lavoro e migliaia di persone che, se il contagio si acuisse, non potrebbero nemmeno seguire le norme igienico-sanitarie più basilari come lavarsi le mani.

Insieme al contagio cresceva il razzismo. Un razzismo per una volta rovesciato: «Quando dovevo intervistare delle persone per le mie ricerche, c’era diffidenza. In alcuni casi, quando dicevo che ero italiana, le persone facevano letteralmente un passo indietro. Ma la cosa non mi disturbava più di tanto, le persone si comportano in maniera irrazionale in questi frangenti, e sapevo che le reazioni non erano dovute alla mia persona. Negli ultimi giorni però, nonostante i contagi siano ancora limitat, c’era più tensione nell’aria», prosegue.

Da lì a poco la decisione che non avrebbe mai voluto prendere: lasciare Città del Capo, 3,5 milioni di abitanti e mille contraddizioni, e interrompere il suo lavoro di ricerca. L’invito dell’Ambasciata Italiana di Pretoria del resto era chiaro: «Se non sei residente torna in Italia già domani se puoi». I pensieri hanno cominciato a ronzare forte: «Qua mi sto trovando bene, ma cosa faccio se succede qualcosa ai miei familiari e non posso tornare? E se mi ammalo? Mi cureranno in un ospedale pubblico? Ma per quanto sia affollato e fragile il servizio sanitario, non sarebbe forse meglio lasciare il posto a chi ne ha davvero bisogno e tornare a casa?».

«Il momento di panico - ricorda la ragazza - l’ho avuto quando il mio aereo per domenica 22 marzo è stato cancellato, e ho dovuto prenotare un costosissimo biglietto per venerdì su Roma, l’ultimo garantito». Uno scalo interno, tre cambi di treno e oltre 30 ore di viaggio. «Ora sono in isolamento fiduciario nel mio appartamento di Rovereto, da sola. Non posso uscire per fare la spesa. Ho segnalato il mio rientro all’Azienda sanitaria, e devo contattarli solo se mi sento male», precisa Jessica. «In Sudafrica ho salutato i miei amici con il cuore pesante. Con tante promesse di ritorno che chissà quando e se potremo mantenere. Saremo gli stessi alla fine di questa esperienza? Saremo più solidali e sensibili alle condizioni degli altri o tutto questo ci indurirà il cuore?».

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