Profugo trova un lavoro, guadagna 7 mila euro in un anno: cacciato dal Centro di accoglienza, è "troppo ricco"

di Nicola Guarnieri - NO

Come era successo ai 15 profughi prelevati dalla polizia alla residenza Fersina di Trento e buttati in strada al freddo il 29 dicembre scorso. Sbattuto fuori dal centro di accoglienza perché, in base alle tabelle governative, è «ricco». Ovviamente è un eufemismo ma la realtà, anche in un periodo in cui la pandemia ha tagliato di brutto gli introiti della gente (in questo caso profugo extracomunitario ma per gli italiani vale lo stesso), è questa. E il giovane in questione - uno straniero arrivato in Italia per chiedere asilo politico - si è trovato di colpo su una strada, senza un tetto sulla testa e costretto a vivere sotto un ponte.
A nulla è valso il ricorso al Tar presentato dall’avvocata Svetlana Turella perché le cifre della sussistenza sono quelle, da tabella di Stato, e nulla si può fare. La circostanza, in altre parole, non è giuridica ma politica visto che i limiti economici della sopravvivenza li ha fissati chi amministra il Paese e non certo dei magistrati. E pensare che, tornando al caso roveretano, nel frattempo il senzatetto ha rinunciato all’impiego a tempo indeterminato proprio perché il salario gli impediva di vivere. Certo, un contratto a tempo pieno con contributi pagati in molti se lo sognano ma la cifra sull’assegno mensile non era né incoraggiante né sufficiente per pagarsi un buco con una branda. Ha così trovato lavoro, seppure a singhiozzo, in agricoltura ma i giudici amministrativi, leggi e norme alla mano, non hanno voluto sentire ragioni: la cacciata dal centro di accoglienza è legittima. Per fortuna che, in queste notti gelate, è riuscito a lasciare il giaciglio di fortuna sotto un ponte e trovare posto sul divano a casa di un amico.
La legge, però, come detto è ferrea e, soprattutto, si basa esclusivamente su un calcolo aritmetico e non certo umano. Tradotto vuol dire che uno che guadagna anche solo un centesimo oltre i seimila euro all’anno non è povero e dunque, nella pratica, deve arrangiarsi a trovarsi un alloggio e pagarselo.
In questo caso ad essere stato espulso da un centro di accoglienza è un richiedente protezione internazionale, pratica non ancora formalizzata dagli organi competenti e dunque in attesa di essere studiata. Nel frattempo si è trovato un mestiere ma i soldi guadagnati non erano sufficienti per pagarsi un posto caldo per la notte. Di qui il tentativo di rientrare in un alloggio per clochard con un ricorso al Tar. Che i giudici hanno ritenuto privo di fondatezza perché, breviario normativo alla mano, «al fine di accedere alle misure di accoglienza il richiedente, al momento della presentazione della domanda, dichiara di essere privo di mezzi sufficienti di sussistenza. La valutazione - ricorda il tribunale amministrativo - è effettuata con riferimento all’importo annuo dell’assegno sociale. In caso di accertamento della disponibilità di mezzi economici sufficienti è disposta la revoca delle misura di accoglienza».
E i controlli del commissariato del governo hanno accertato che nel 2019 l’uomo aveva un lavoro con contratto a tempo indeterminato e un introito superiore alla soglia di povertà fissata da Roma. Insomma, il Tar nulla può fare contro i parametri fissati dalla politica. Tant’è che la stessa avvocata Turella, probabilmente, non impugnerà la sentenza al consiglio di Stato. Perché i paletti, per bassi che siano, sono i medesimi.

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