Il mondo cambia, i razzisti invece no

«Ci sono un negro e un albanese in macchina, chi guida? Il poliziotto». Eccola là. Come inizia una barzelletta razzista? Con il tipo che la racconta che si guarda alle spalle. Un po' di nascosto, tutto contento della marachella. Si chiama umorismo politicamente scorretto, in questo caso la sottospecie è humour etnico. Fossimo un popolo avanzatissimo, evolutissimo, illuminatissimo ce lo potremmo forse permettere. Dico di sfottere principi come il rispetto, l'uguaglianza, i diritti umani. Ma non lo siamo. Anzi, mi pare si vada un po' indietroI tuoi commenti

di Duccio Canestrini

nero cittadinanza razzismo«Ci sono un negro e un albanese in macchina, chi guida? Il poliziotto». Eccola là. Come inizia una barzelletta razzista? Con il tipo che la racconta che si guarda alle spalle. Un po' di nascosto, tutto contento della marachella. Si chiama umorismo politicamente scorretto, in questo caso la sottospecie è humour etnico. Fossimo un popolo avanzatissimo, evolutissimo, illuminatissimo ce lo potremmo forse permettere. Dico di sfottere principi come il rispetto, l'uguaglianza, i diritti umani. Ma non lo siamo. Anzi, mi pare si vada un po' indietro.


Come mai il calciatore nero che sbaglia un passaggio diventa un «negro di m.»? Qual è il meccanismo che ci porta a generalizzare, a fare uno shift dal comportamento all'identità, a regredire fino al punto da ripescare categorie discriminatorie e razziste, negandolo o senza rendercene conto. «Non sono razzista, ma …». Eh già, puntini puntini. Il tunisino che fa perdere tempo all'impiegata postale non è più un uomo, è solo un tunisino ignorante. Il pakistano che festeggia rumorosamente in condominio è un dannato pakistano. Se la marocchina getta in terra la confezione del gelato è perché è una extracomunitaria (noi della Val di Noi invece non l'abbiamo mai fatto).

 

Se la donna che salta la coda alla biglietteria della stazione è una sudamericana, non è più una donna maleducata che salta la coda, ma una sudamericana, una straniera, e ci dimostriamo convinti del fatto che di stranieri da noi ce ne siano troppi. Troppi siamo tutti quanti, perché sono la promiscuità, l'alta densità demografica, le frequentazioni obbligate a ingenerare insofferenza. Tutto questo associato a chiusure regionaliste e a semplice mancanza di abitudine: in India folle di umanità variegata e colorata si mescolano letteralmente strofinandosi ogni giorno e quel contatto fisico non dà noia a nessuno. Lì sono abituati alla quantità e alla varietà dei volti, ai diversi colori dei vestiti, alle diverse sfumature della pigmentazione della pelle, ai diversi odori che hanno le persone. All'opposto, in altri casi, come quello degli indiani d'America irochesi, le tribù si facevano guerre feroci combattendo su praterie immense. Questo per dire che la percezione della rarefazione o della congestione umana (gli altri «sono troppi») è relativa.


Guardacaso lo straniero affluente è benaccetto, mentre lo straniero indigente è un reietto. Sullo straniero che serve non si sputa. Per esempio quando il fattorino del Bangladesh ti porta a casa l'oggetto ordinato su ebay, o quando il saudita spende e spande negli alberghi. Quando il tuttofare rumeno ti aggiusta lo scarico del bagno, per pochi soldi. Quando il bracciante polacco raccoglie la frutta. Allora no, i forestieri non sono troppi.

 

Gira in rete un orrendo montaggio fotografico che ritrae e paragona due imbarcazioni sovraffollate: onesti emigranti italiani verso l'America da una parte, delinquenti «invasori» in arrivo in Italia, dall'altra. Come a dire: c'è una bella differenza. Quanto è semplice banalizzare la lettura di momenti storici diversi, quanto è facile semplificare senza capire, quanto è popolare accusare intere categorie di persone, reputandosi superiori, titolari di maggiori diritti. Soprattutto, diciamolo, quando le cose vanno male. È la classica guerra tra poveri. Quando le risorse sono poche, il popolo si sfoga: dàgli all'untore, dàgli all'albanese, al lavoratore in nero, ai nomadi senza dimora che muoiono tra noi senza pudore, dando scandalo. Dàgli all'invasore che ci porta via le donne e il pane. Come successe a Trento nella vicenda del Simonino: in quel caso toccò agli ebrei, la persecuzione e la cacciata. Via gli stranieri che ci rubano il lavoro, che ci affollano i treni, che ci riempiono i parchi giochi di troppi figli.


Facciamo un gioco delle parti. Proviamo a sostituire l'identità sociale, etnica o nazionale di questi personaggi di fantasia. Proviamo a immaginare un calciatore tedesco che sbaglia un passaggio, un torinese che salta la coda, un ragazzo francese che fa perdere tempo all'impiegata postale, un trentino che festeggia rumorosamente in condominio, una donna bolognese che getta in terra la confezione del gelato.


Proviamo a rimanere sempre vigili, anche in periodi di stress, di crisi, di promiscuità, di caldo, di tasse, di disoccupazione. Se non stiamo bene, possono esserci molti motivi, personali, economici, politici, ma la colpa di certo non è la varietà etnica delle persone che ci circondano. Stai a vedere che non ci piacciamo neanche più, noi della Val di Noi. Che siamo stufi di rifugiarci negli stereotipi, e di barzellette che non fanno più ridere. Forse il tipo che si guarda alle spalle prima di spararne una grossa non sa che anche la nostra società produce delinquenza. E se non s'è ancora accorto che il mondo cambia, quando si rigira, parli al vento.

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