Addio a Gianni Convertino, per tanti anni gestore della "Scaletta" di Trento

Chi l’ha detto che un emigrante, specie dal Sud al Nord in anni in cui i «terroni» erano visti male, non può diventare un «eroe» conquistatore della nuova patria? In tanti, forse. Ma c’è una persona che è riuscita ad esserlo trasformando un locale nella casa dei trentini. Ma non solo: dei veneti, dei lombardi, dei toscani, dei pugliesi, dei sardi e avanti così con l’elenco etnico-geografico. E ci è riuscito rimanendo sempre se stesso, con la sua umanità e simpatia. Quell’uomo, ora, non c’è più. Se n’è andato al creatore portandosi dietro generazioni di avventori di ogni lignaggio e cultura, con soldi in tasca o capaci solo di scroccare un bicchiere. Per lui erano tutti uguali, erano persone. Gianni Convertino, 65 anni, è stato per vent’anni l’anima della Scaletta, il Bar con la «B» maiuscola.
Quel «localaccio» in vicolo Santa Maria Maddalena (il centro storico di Trento con il sapore di periferia) accoglieva tutti. Certo, se inciampavi in quegli assurdi scalini di accesso pagavi da bere a tutti, ma era un pegno che piaceva. Da qui, d’altro canto, sono passati tutti: barboni e amministratori delegati, artigiani e giornalisti, letterati e perditempo, studenti e artisti. Varcata la soglia non c’era titolo di studio o età anagrafica, quella restava all’uscio.
Gianni era partito da Fasano, Brindisi, in cerca di fortuna. Cuoco di professione, ha lavorato a Bibione, a Rimini, in Valle d’Aosta e pure a Davos, in Svizzera. Poi la scelta di fare il barista al Piazzetta di piazza Pasi prima di prendere la Scaletta assieme a Mauro Faes. E portare avanti quella tradizione partita con Sociologia e Lettere e aperta al mondo reale, quello delle contestazione ma anche delle partite a morra, carte e soprattutto pirlo. Gioco antico, ignoto ai non praticanti. E Gianni, che aveva scoperto il «balocco» al bar dei Cavai, se ne fece costruire uno da un falegname. E avanti coi tornei, magari in abbinata con la briscola. Il premio al vincitore? Chi perde paga.
Dal 1986 al 2007 la Scaletta era il “luogo” della gente. Tutta la gente, con target più o meno legato agli orari. In prima serata, ad «assalto» ancora in preparazione, al banco c’erano personaggi «mitici»: il Tappo, gran giocatore di pirlo per altro, il Mario Barba, che invece eccelleva nella morra, e il Presidente, un barbone gentile e di poche parole che si beveva un paio di rossi e poi andava a trovarsi il posto letto al parco («vado a dormire presto, sono alla vecchia», ripeteva sempre salutando) o, prima di lui, il Sitèla, altro barone del sole che stava alla città come il Nettuno a piazza Duomo.
Poi arrivava l’umanità varia, compresi tanti giovani: studenti, perlopiù universitari, ma anche poeti e musicisti, attori e pittori. Come Lome, al secolo Lorenzo Menguzzato, che qualcuno scambiava per l’arredamento. Il suo studio, d’altro canto, è di fronte e alla Scaletta ci faceva capolino anche solo per una battuta al volo con l’oste. Che si è pure inventato un gemellaggio che ha fatto storia: Scaletta-Cavai, due simboli della Trento da bar, delle sfide a giochi più o meno inseriti nelle tabelle di quelli leciti ma anche a chi la sparava più grossa. E giù risate, perché quello, alla fine, era il premio per tutti.

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