Berlinguer, il comunista che amava Wagner
Con Enrico Berlinguer si rischia sempre di fare mitologia, agiografia, oppure semplicemente archeologia politica. Ora che siamo entrati nell’era renziana, sembra trascorsa un’era glaciale da quando c’era lui. Lui Enrico, non Lui Lui, il Palmiro Togliatti, reincarnazione italiana (con le dovute correzioni) di Lui Lui Lui, addavenì baffone Giuseppe Stalin. «L’Unità» - giornale fondato da Antonio Gramsci, l’altro sardo imprescindibile nella storia del Pci - è uscita con un supplemento di 96 pagine, in formato e carta quotidiano, che per 70 centesimi ci ripropone, trent’anni dopo la morte (11 giugno 1984, Padova) e a 92 dalla nascita (Sassari, 25 maggio 1922), un’analisi multidisciplinare del grande e amatissimo leader.
Con Enrico Berlinguer si rischia sempre di fare mitologia, agiografia, oppure semplicemente archeologia politica. Ora che siamo entrati nell’era renziana, sembra trascorsa un’era glaciale da quando c’era lui. Lui Enrico, non Lui Lui, il Palmiro Togliatti, reincarnazione italiana (con le dovute correzioni) di Lui Lui Lui, addavenì baffone Giuseppe Stalin. «L’Unità» - giornale fondato da Antonio Gramsci, l’altro sardo imprescindibile nella storia del Pci - è uscita con un supplemento di 96 pagine, in formato e carta quotidiano, che per 70 centesimi ci ripropone, trent’anni dopo la morte (11 giugno 1984, Padova) e a 92 dalla nascita (Sassari, 25 maggio 1922), un’analisi multidisciplinare del grande e amatissimo leader.
Un uomo passato nell’immaginario pop come la maschera, rugosa e sofferta, dell’austerità, ma che invece era allegro, aveva il senso dell’umorismo, e amava le cose belle della vita, anche quelle stigmatizzate dal pesantissimo moralismo cattocomunista italico, come la barca a vela (vizio troppo borghese, che qualche problemuccio arrecò anche al suo tardo successore D’Alema) o la musica di Wagner. Anche se era piaciuta a un sanguinario dittatore nazionalsocialista, Berlinguer l’amava ma non sapeva se fosse un amore lecito, confessabile, finché un giorno Togliatti gli confessò che Wagner piaceva anche a lui, e così Enrico - con la coscienza sollevata dall’autorità (meccanismo mentale a dire il vero assai leninista, o controriformista, o fascista) - si mise il cuore in pace.
Ma se per Wagner aveva ragionato da comunista ortodosso, la vita e gli scritti di questo politico intellettuale, raffinato e popolare al tempo stesso, raccontano invece la storia di uno spirito libero, che esplorava le frontiere e non si faceva fermare dai tabù. Tanto libero, racconta Giovanni Fasanella di «Panorama», che il 3 ottobre 1973, mentre viaggiava in auto verso l’aeroporto di Sofia, un camion bulgaro speronò la sua auto (dove viaggiava con due alti dirigenti del Partito comunista di Sofia, sgraditi al premier Zhivkov) e cercò di ucciderlo, riuscendo però solo ad ammazzare l’interprete. Anche se il complotto non sarà mai dimostrato e sempre smentito dai dirigenti del Pci, Berlinguer aveva la certezza (e lo confidò alla moglie) che i bulgari avevano attentato alla sua vita per punirlo delle sue aperture «eterodosse», filo-occidentali e anti-staliniste che avrebbero potuto incrinato la compattezza del blocco del Patto di Varsavia.
Il pezzo d’apertura è affidato ad Alfredo Reichlin (e forse si poteva ricorrere ad un interprete più spiazzante), che spiega la «persistenza» di Berlinguer con questa ragione: «il bisogno oggettivo di un pensiero più lungo che non si affidi a una nuova filosofia della storia ma sia però capace di leggere la nuova struttura del mondo... un pensiero che produca senso e ci dica dove andiamo». Ecco, un senso.
Potremmo dire, semplificando, una visione politica della realtà che si agganci a un’etica (molto oltre la berlingueriana «questione morale» italiana), in cui le ragioni dell’efficienza e della modernizzazione - gli imperativi del renzismo, per capirci - non smarriscano un forte legame con il tema della giustizia sociale?
E qui ci soccorre la bella citazione di Gramsci, nel discorso berlingueriano di commemorazione per il 40° della morte a Cagliari, 27 aprile 1977, che l’Unità stampa in rosso vivo come incipit dell’inserto: «Il rivoluzionario nasce dal ribelle, come egli stesso scrisse: “Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie nelle scuole elementari...”».
L’amore per il mare, la ferita sanguinante di Moro, l’utopia e il realismo, avversari e alleati, e che cosa resta di E.B. nei giovani oggi: tutto questo si legge, nel fascicolo del «suo» giornale, bianco rosso nero, arioso.
Ad Oriana Fallaci per il «Corriere», nel luglio 1980, disse una cosa bellissima: «Io le invettive non le lancio contro nessuno, non mi piace scagliare anatemi, gli anatemi sono espressioni di fanatismo e v’è troppo fanatismo nel mondo». Paradossalmente, proprio il Campione delle invettive l’ha resuscitato prima del voto europeo: decisamente, non gli sarebbe piaciuto.
L’inserto dell’Unità è ricco, prezioso. Peccato che manchi la voce di Pierluigi Bersani, che è stato l’ultimo dirigente post-Pci che ha cercato di salvare - fuori tempo massimo - le ragioni ideali della «ditta» berlingueriana. E peccato che non ci sia un’intervista a Renzi: è vero che lui - fiorentino scout postdemocristiamo - nulla ha da spartire con Berlinguer. Ma è pur vero che il compromesso storico l’ha inventato Enrico, non Matteo, e che solo Renzi è riuscito - con il Pd sintesi postcattocomunista - a superare il 34% che il Pci di Berlinguer aveva preso («contro» la Democrazia cristiana!) nel 1976, picco storico non più eguagliabile di una sinistra che cercava di andare al potere per cambiare radicalmente l’Italia, non solo per modernizzarla.
Ma questa, appunto, è tutta un’altra storia.