Berlusconi salva l'Italicum minoranza Pd sulle barricate
Altra giornata ad altissima tensione in Senato, dove si vota la legge elettorale con una parte significativa di esponenti del Pd contrari o scettici verso il testo frutto dell’accordo del nazareno fra il premier Matteo renzi e il leader di Forza italia Silvio Berlusconi.
Ora l’aula di palazzo madama è impegnata nel voto degli emendamenti all'Italicum, che dovrebbe sostituire il Porcellum, bocciato dalla Corte costituzionale. I lavori proseguiranno oggi, giovedì, e dopo l’approvazione dell’emendamento definito «super-canguro» firmato dal senatore Pd Stefano Esposito, sono decaduti 35.700 emendamenti presentati soprattutto dall’opposizione contraria alla legge, che viene vista come una replica della precedente, con ancora troppi parlamentari «nominati» dai leader di partito. Ma saltano anche emendamenti della minoranza Pd, che viene neutralizzata grazie all'asse fra il governo e Forza Italia. Restano circa 13 mila emendamenti ma anche su questi è probabile uin colpo di spugna e in aula potrebbe scattare il contingentamento dei tempi, perché il premier Renzi preme per una rapida approvazione della legge nella formulazione concordata nell'ultimo faccia a faccia con Berlusconi, lunedì scorso.
Dopo questa pagina di palazzo madama resta da vedere quale sarà il riflesso sul voto per il Quirinale e sul futuro del governo Renzi: malgrado le continue smentite da parte di esponenti di area governativa, a cominciare dal capo del governo, fra i dissidenti Pd si diffonde la preoccupazione circa accordi con Berlusconi che riguarderebbero anche il nome del prossimo presidente della Repubblica (si insiste sull'ipotesi Giuliano Amato) e qualche provvedimento legislativo favorevole a Berlusconi.
Ad aggravare i rapporti interni al Pd sono state le pesanti dichiarazioni fatte dallo stesso Esposito, ieri protagonista di una polemica dopo aver definito fra l'altro «parassiti» i dissidenti nel Pd. Di fronte alle vibranti proteste della minoranza, ha chiesto scusa.
Il suo emendamento che di fatto taglia tutte le altre proposte di modifica contrarie ha ottenuto 175 sì, 110 i no, due i senatori astenuti. Dopo il voto, nell’emiciclo è esplosa la protesta soprattutto dei 5 stelle e della Lega.
In precedenza erano stati bocciati entrambi gli emendamenti a firma del dissidente Pd Miguel Gotor. Il primo, bocciato con 170 no, proponeva di modificare la proporzione tra nominati ed eletti con il sistema delle preferenze, a favore di questi ultimi: isì sono stati 116, 5 le astensioni.
Il secondo, respinto con 168 no, 108 sì e tre astensioni, proponeva fra le altre modifiche correzioni al capitolo dei capilista, sempre a favore del sistema delle preferenze.
In tutte le votazioni menzionate è stato decisivo il supporto dato da Forza Italia che, malgrado a sua volta abbia registrato la presenza di una ristretta pattuglia dissidente, ha reso ininfluente la contrarietà manifestata da almeno 25 senatori democratici.
«Il Pd al Senato non ha più la maggioranza. Forza italia è tornata ad essere centrale» ha commentato poco fa Silvio Berlusconi parlando alla riunione con i deputati Fi.
Intanto 140 tra deputati e senatori della minoranza Pd oggi si sono riuniti alla Camera con Bersani.
A partecipare all’incontro sul tema delle riforme tutte le aree della minoranza: Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Roberto Speranza, Rosy Bindi, Pippo Civati. Alla riunione, nella sala Berlinguer del gruppo Pd, ci sono anche Stefano Fassina, Francesco Boccia, Cesare Damiano e molti senatori in prima fila nella battaglia sull’Italicum al Senato come Miguel Gotor, Vannino Chiti, Corradino Mineo.
«Più che una riunione di corrente sembra una riunione di partito», osserva il deputato bersaniano Giacomo Portas.
Nel giorno in cui Matteo Renzi vince la sua prova di forza al Senato, la minoranza avverte il leader Pd lanciando segnali numerici in varie direzioni: tiene sull’Italicum la trentina di senatori dissidenti e in 50 deputati lasciano l’aula della Camera sull’emendamento di Ettore Rosato che ripristina i senatori a vita. Ma è Pier Luigi Bersani, chiamando a raccolta 140 parlamentari nella sala Berlinguer a Montecitorio, a chiarire al premier che o cambia strada e cerca l’unità del Pd o sull’elezione del Quirinale rischia grosso. Con conseguenze irreversibili anche sul futuro del Pd.
Non è un novità che le minoranze del Pd riuniscono anime e sensibilità diverse: dai più dialoganti raccolti intorno al capogruppo Roberto Speranza ai pasdaran di Pippo Civati. In mezzo c’è Pier Luigi Bersani, uno che per il bene della ditta eviterebbe rotture e sul Quirinale è in teoria più che disposto a cercare un’intesa con Renzi. Ma molto amareggiato dopo la «forzatura» sulla riforma elettorale.
«La situazione è mossa, molto mossa», osserva preoccupato l’ex segretario Pd salendo le scale della Camera per raggiungere la riunione a cui partecipano Rosy Bindi, Gianni Cuperlo, Francesco Boccia, Stefano Fassina e anche alcuni «osservatori», malignano in molti, spediti da Matteo Renzi a fiutare la situazione. Certo tra Cuperlo che parla di una «mutazione genetica» della maggioranza nata sul sostegno essenziale di Fi sull’Italicum e Speranza che esce dalla riunione affermando che sul Quirinale «la minoranza chiede l’unità del Pd» ce ne passa.
Ma quello che conta oggi è il segnale politico-numerico recapitato a Palazzo Chigi ad una settimana dall’avvio delle votazioni per il presidente della Repubblica. «Da Renzi non è arrivata una carezza - sostiene preoccupato Cesare Damiano, che sul jobs act si è molto speso per ridurre i malpancisti del Pd - sulla legge elettorale ha scelto l’alleanza con la destra.
Vedremo le prossime mosse...».
A questo punto, però, rinviando l’offensiva sull’Italicum quando arriverà alla Camera, la minoranza guarda alla madre di tutte le battaglie: il Quirinale. Sull’Italicum il premier non ha voluto cercare una «mediazione possibile», osserva Bersani, ora la minoranza aspetta il segretario dem davanti al prossimo bivio. Nella riunione alla Camera non si parla di strategie future. Le scelte della sinistra dipenderanno da Renzi: o cercherà il nome il più possibile condiviso nel Pd o se privilegerà il patto del Nazareno nulla è escluso. Neppure l’asse con Sel e i dissidenti grillini sul nome di Romano Prodi.
«Sarà bene considerare - avverte Francesco Boccia - che quando in due si corre verso il burrone, occorre fermarsi insieme, altrimenti si precipita sempre insieme. Mi auguro che il senso di responsabilità prevalga in tutti».
La norma sui capilista va cambiata, facendo in modo che il «il 70% degli eletti sia scelto con le preferenze direttamente dai cittadini» anche per evitare i «rischi» di incostituzionalità da parte dell’Italicum, «che dopo 10 anni di Procellum sarebbero intollerabili. Ne va della credibilità del Parlamento e della democrazia» aveva detto Gotor, illustrando l’emendamento sottoscritto dalla minoranza Dem sul nodo delle liste bloccate.
Molto duro con la minoranza era stato il senatore eletto in Trentino Giorgio Tonini: «Nel mio partito è successa una cosa grave, che potrebbe diventare un problema per il futuro del Pd. Nel nostro regolamento c’è lo spazio per la cosiddetta obiezione di coscienza, è riconosciuto a ogni singolo senatore il diritto di dissentire nel comportamento di voto, ma in questo caso la questione ha delle dimensioni tecniche. Se andranno fino in fondo e non voteranno in aula, questo sarà un elemento che costituirà un problema per il futuro del partito. Rischiano di mettere a repentaglio la tenuta del governo, e quindi del Paese, in un momento difficile come questo, per una questione che riguarda un tema opinabile, tecnico e non politico. Viene il sospetto che invece sia una battaglia politica contro Renzi con qualunque mezzo, ma questo non è ammissibile in un partito che vuole essere unitario. Quando ero in minoranza con Bersani, non mi sarei mai immaginato di agire in questo modo».
Sulla scelta del candidato al Quirinale, Tonini ha poi aggiunto: «Il nostro impegno è quello di evitare un lungo Vietnam. L’ideale sarebbe il “metodo Ciampi” che venne eletto alla prima votazione da un amplissimo schieramento parlamentare. Noi stiamo lavorando per questo obiettivo, cioè trovare una figura popolare che sia al tempo stesso un arbitro del sistema, non un giocatore di parte, una personalità da cui tutti si possano sentire garantiti».
Intanto, Matteo Renzi tira un sospiro di sollievo: «Una giornata importante per le riforme e la legge elettorale, non sono cose lontane dalla gente: avremo un vincitore la sera delle elezioni, mandiamo in soffitta le liste bloccate e più della metà eletti con le preferenze ed il resto con i collegi. Non subiremo poteri di veto dei piccoli partiti e governo durerà cinque anni. Con buona pace dei frenatori noi andiamo avanti: con prudenza, saggezza, buon senso e equilibrio».
Frattanto, i giuristi sono divisi sull’emendamento Esposito alla legge elettorale. «A mio avviso è un trucco, era era inammissibile», afferma Gianluigi Pellegrino.
«Inammissibile? Allora lo era anche l’emendamento Gotor», afferma Stefano Ceccanti.
«Apprezzo i miglioramenti del nuovo Italicum ed esistono strumenti legali per assorbire tentativi ostruzionistici, ma l’emendamento Esposito è una ferita alle regole di formazione delle leggi», osserva Pellegrino.
«Con la sua approvazione abbiamo in questo momento un testo di legge che dice tutto e il suo contrario. Nell’articolo premissivo inserito da Esposito c’è il nuovo Italicum, ma negli altri articoli, che Esposito non ha proposto di modificare, c’è ancora quanto approvato dalla Camera». Lo strumento del super-canguro, in realtà, è «qualcosa di totalmente diverso dagli strumenti, seppur estremi, come tagliola o canguro che mirano ad assorbire i contenuti di altri emendamenti, quando ne sono a centinaia. L’emendamento Esposito invece si presenta come un articolo premissivo, che di norma contiene principi e dichiarazioni d’intento inserite, durante l’esame parlamentare, in apertura della norma, e che non impegnano gli articoli successivi. L’emendamento Esposito, invece, non contiene principi, ma veri e propri precetti normativi che costituiscono già la legge elettorale: con questo escamotage si bypassa il dibattito sugli articoli successivi che però non vengono sostituiti. E l’emendamento non reca le modifiche degli articoli successivi, anzi va in contraddizione con essi. Quando si passerà al voto articolo per articolo, cosa succederà se resteranno confermati i contenuti approvati alla Camera e in contrasto con l’articolo falsamente premissivo?».
D’altro avviso il costituzionalista Ceccanti. «A chi sostiene che l’emendamento Esposito non era ammissibile e che rappresenta invece un articolo premissivo, dico innanzitutto che se si fosse adottato questo principio, allora si sarebbe dovuto considerare inammissibile anche l’emendamento presentato da Gotor e dalla minoranza Pd: anche quello è un articolo premissivo».
«Lo strumento del cosiddetto canguro è già stato ampiamente utilizzato al Senato, che lo prevede anche nel suo regolamento e lo ha già utilizzato anche per riforme costituzionali», aggiunge Ceccanti. Il giurista sottolinea anche un altro punto: «L’emendamento Esposito è costituito da principi che sono autoapplicativi. Quel testo, infatti, contiene i principi generali sull’Italicum scritti per abbattere le migliaia di emendamenti presentati, ma in modo tale da essere principi già di fatto applicativi».
Il voto di quell’emendamento, quindi, supera il problema delle eventuali modifiche all’Italicum e «contiene disposizioni di principio sulle liste di candidati o sulle circoscrizioni, che sono di fatto utilizzabili». «In generale - osserva Ceccanti - se le opposizioni presentano migliaia e migliaia di emendamenti con intento ostruzionistico e per impedire l’esame di un testo di legge, come è avvenuto per la legge elettorale, non possono poi lamentarsi se si adottano dei sistemi per far procedere la discussione, specialmente in una fase e su una materia in cui il tempo è una variabile preziosa. Così facendo, le opposizioni in qualche modo provocano quella reazione, quell’effetto. Nel caso specifico, poi, lo strumento del canguro è uno strumento a cui si è già fatto ampiamente ricorso e che al Senato è previsto fin dal 1996 ed è formulato nell’art. 102 comma 4 del regolamento, dove si prevede la possibilità che il presidente possa modificare l’ordine delle votazioni quando lo reputi opportuno ai fini dell’economia o della chiarezza delle votazioni stesse».