Italicum, anche Bersani dice no alla fiducia a Renzi
Nessuna marcia indietro, questa volta non c'è "ditta" che tenga. All'ennesimo "schiaffo" del premier, alla contestata decisione di mettere la fiducia sulla legge elettorale, ieri i big della minoranza Pd rispondono con uno strappo. Gli ex segretari Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, il capogruppo dimissionario Roberto Speranza, gli sfidanti di Renzi al congresso Gianni Cuperlo e Pippo Civati, l'ex premier Enrico Letta e poi Rosy Bindi, Stefano Fassina, Alfredo D'Attorre. Non parteciperanno al voto di fiducia.
Nessuna marcia indietro, questa volta non c'è "ditta" che tenga. All'ennesimo "schiaffo" del premier, alla contestata decisione di mettere la fiducia sulla legge elettorale, ieri i big della minoranza Pd rispondono con uno strappo. Gli ex segretari Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, il capogruppo dimissionario Roberto Speranza, gli sfidanti di Renzi al congresso Gianni Cuperlo e Pippo Civati, l'ex premier Enrico Letta e poi Rosy Bindi, Stefano Fassina, Alfredo D'Attorre. Non parteciperanno al voto di fiducia. Non per mandare a casa il governo o mettersi fuori dal Pd, sottolineano. Ma per segnalare la contrarietà a una vera e propria "violenza al Parlamento".
Alcuni deputati della sinistra dem li seguiranno, molti altri probabilmente no. Ii nomi dei dissidenti sono "pesanti" e tra i renziani c'è chi vede in questo strappo un primo avviso di scissione. In mattinata la minoranza dem lancia un segnale al segretario e premier: compatti in Aula (solo Civati rivelerà di aver votato contro il governo) votano a scrutinio segreto le pregiudiziali presentate dall'opposizione per affossare la legge.
Non si mira, è il messaggio, a bloccare la legge o il governo, ma a votare poche, mirate, modifiche su liste bloccate e apparentamento, per correggere gli squilibri del testo. In "cambio" a Renzi si chiede di non mettere la fiducia, di consentire al Parlamento di decidere. Fino all'ultimo alcuni ci sperano. Ma subito dopo il voto delle pregiudiziali arriva quello che i "big" della sinistra dem vivono come uno schiaffo: il Cdm decide la fiducia. Alcuni dei "peones" della minoranza, riferisce più un deputato, a quel punto tirano un sospiro di sollievo: la fiducia li libera dal peso della scelta tra la linea di partito e la linea di principio. Nel 'corpaccionè di Area riformista, la componente più consistente della minoranza, molti (sarebbero circa 45 su 80) sono convinti che la fiducia non si possa non votare. Lo dichiarano anche esponenti di primo piano come Davide Zoggia e Nico Stumpo.
Ma a metà pomeriggio Roberto Speranza, che di Area riformista è il capofila, decide per lo strappo: "La fiducia è un errore gravissimo - dichiara - Questa volta non la voto. Non posso legittimare questa violenza al Parlamento". Parole durissime dettate dalla "scelta personale" di "difendere le mie convinzioni più profonde", spiega Speranza. Che così rende nei fatti irrevocabili le sue dimissioni da capogruppo. Fino all'ultimo, tra i banchi di un'Aula ormai vuota, alcuni colleghi più dialoganti gli chiedono di non farlo. Ma il dado è tratto. Uno dopo l'altro gli altri dirigenti della minoranza, in stretto contatto per tutta la giornata, dichiarano il loro dissenso.
"È in gioco la democrazia e ognuno deve assumersi le sue responsabilità. Questa fiducia non la voterò", dichiara Bersani, che in mattinata con Cuperlo non aveva partecipato al voto palese sulla richiesta di sospensiva della legge.
"Dopo lo strappo voluto dal governo, non voterò: le regole non si impongono", annuncia Letta, che non aveva votato la pregiudiziale di merito. A loro si uniscono Bindi, Civati, Fassina, D'Attorre, Leva. Quali truppe avranno i 'big', si potrà intuire forse da una riunione di Area riformista convocata in serata alla Camera, che potrebbe sancire la spaccatura nella minoranza dem. Alla fine, calcola qualcuno, i dissidenti potrebbero essere tra i 30 e i 50. Perché molti deputati della minoranza voteranno sì alla fiducia e forse anche al testo finale.
"Speranza - si sfoga uno di loro - ha commesso un suicidio politico, lasciando senza guida Area riformista e mettendoci in una posizione drammatica".
La legge elettorale, concordano in molti, è uno spartiacque per la minoranza dem, che potrebbe dividersi definitivamente se Renzi deciderà (ma l'orientamento sarebbe indicare Ettore Rosato) di proporre a un moderato di Area riform
ista (si citano Amendola e Damiano) la guida del gruppo. Ma i renziani, che registrano le critiche esplicite negli ultimi giorni anche di Romano Prodi, vedono l'ombra della scissione, negata da tutti: "Se ne vogliono andare, fare un nuovo partito di sinistra. Speranza si ritaglia ambizioni da leader"
"È un passaggio drammatico, non solo per me. Se non vado via io, mi cacceranno loro. Ma preferisco andare via. Vediamo, aspettiamo qualche giorno. La fiducia sull'Italicum non la voto". Così Pippo Civati, deputato del Pd, a La Zanzara su Radio 24. "Se Berlusconi avesse messo la fiducia - aggiunge Civati - ora sarei in piazza a fare i girotondi. La fiducia l'aveva messa De Gasperi nel '53 con la legge chiamata truffa, che era meglio dell'Italicum. Incredibile. Con l'Italicum abbiamo messo tutto alla rinfusa: nomine bloccate, le preferenze che scattano solo per chi vince perchè chi perde ha solo i nominati e altre cose. Si, si potrebbe chiamare Obbrobrium. Non è male come definizione. È una legge che sbilancia il sistema e mortifica il Parlamento. Tra qualche anno ne diremo il peggio. Ha messo insieme pezzi diversi: quello francese, uno tedesco, uno inglese".
Per Civati la decisione di porre la fiducia è "una scelta forzata, non giustificata da nessun elemento, nè numerico, nè politico, e molto discutibile sotto il profilo regolamentare - scrive il deputato sul suo blog -. A me dispiace ma come scrivevo giorni fa è come se l'Italicum fosse già entrato dentro di noi e dentro le istituzioni repubblicane: decide il governo, il Parlamento si adegua. E non è il secondo a controllare il primo, ma il contrario. Alle perplessità anche di ordine costituzionale sul testo della legge si aggiungono così (almeno per me) i motivi di contrasto alle scelte di metodo che si sono volute assumere. Che maturano in queste ore ma che erano state predisposte da settimane, con una notevole premeditazione. I precedenti? La legge Acerbo (all'inizio del ventennio fascista, ndr) e la legge truffa che qualcuno, inopinatamente, ha ricordato anche dai banchi della maggioranza. Senza rendersi conto della gravità di quello che è accaduto oggi".
È il governo che il premier mette in discussione ponendo la fiducia sull'Italicum e sfidando il Parlamento, la maggioranza e soprattutto la sinistra Pd. "Siamo nati per fare le riforme, non stiamo qui a scaldare la sedia come hanno fatto per decenni. O passa la riforma o andiamo a votare e non sono io a temere le elezioni", è la prova di forza che il leader Pd lancia dopo aver deciso di non fidarsi della sinistra del partito che, secondo i fedelissimi, era pronta a tendere un agguato nei voti segreti sugli emendamenti. La decisione di mettere la fiducia era da giorni data per scontata nella cerchia renziana. Troppo alto il rischio che nel voto segreto sugli emendamenti, presentati dalla minoranza, si saldasse un fronte con le opposizioni per indebolire il governo. Ma Renzi ha voluto aspettare il voto sulle pregiudiziali per trarre il dado.
E anche se ufficialmente, secondo i fedelissimi del premier, il governo ha dimostrato di avere i numeri anche senza mettere la fiducia, c'è chi dentro la maggioranza dem ammette che non si è riuscita a sfondare quella quota 400 che avrebbe dimostrato la presenza di una fronda pro-governo tra gli uomini di Verdini e i fittiani. Ma è soprattutto il clima di sospetti incrociati dentro il Pd ad aver spinto il governo a decidere di non rischiare. "La minoranza ha votato compatta contro le pregiudiziali - raccontano i renziani - per scoraggiarci a mettere la fiducia e poi fare il trappolone sugli emendamenti".
A questo punto, Renzi ha deciso di politicizzare ancora di più il voto sulla legge elettorale chiamando alla conta sul governo.
"Noi andiamo a viso aperto, gli altri facciano altrettanto se hanno il coraggio: o vado avanti a fare le riforme o si torna alle elezioni", è l'aut aut del premier, furioso per la pretesa della minoranza, che ha perso il congresso, di imporre la linea a chi lo ha vinto. Nel mirino la sinistra del partito e sopratutto gli ex leader, da Enrico Letta a Pier Luigi Bersani, che stavolta hanno deciso di fare uscire allo scoperto i malumori. "Il loro obiettivo non è la riforma elettorale ma Renzi stesso", sono convinti i fedelissimi del premier, decisi con questo voto di fiducia a dimostrare l'irrilevanza nei fatti della sinistra, impegnata solo "ad una battaglia di testimonianza".
Più che nei voti di fiducia, al vertice del Pd si sa che i veri rischi si correranno nel voto finale alla riforma, che avverrà a scrutinio segreto probabilmente già lunedì o martedì. Solo allora si vedrà se il fronte anti-governo ha i numeri per la spallata al governo, tentativo che, mostrando sicurezza, i renziani escludono. Anche perchè i pontieri si sono rimessi al lavoro per spaccare Area Riformista e assicurarsi il voto favorevole di quanti più deputati di sinistra. Trattative e contatti che hanno in ballo anche l'offerta alla minoranza del posto di capogruppo lasciato libero da Roberto Speranza. Nessun scambio, precisano dal vertice del Pd, ma è un fatto che fino alla prossima settimana il ruolo di presidente dei deputati resterà vacante.