La deportata stringe la mano a un ex SS: il perdono diventa un caso
La stretta di mano fra un sopravvissuta e uno degli aguzzini di Auschwitz apre un caso nel processo dell'ex SS, Oskar Groening, il contabile del lager simbolo della Shoah, alla sbarra per aver contribuito allo sterminio di 300mila ebrei ungheresi. E la foto di quel gesto, pubblicata oggi da Bild, si unisce alla sensazione generale che il processo in corso, 70 anni dopo la Seconda guerra mondiale, sia in un certo senso unico. Se i fatti sono in qualche modo già noti, dalle molte testimonianze sull'Olocausto, la cronaca che sta accompagnando uno degli ultimi grandi processi dei responsabili della Shoah è segnata da episodi inediti.
Eva Kor aveva perdonato Groening pubblicamente, ad esempio, dopo aver raccontato nell'aula giudiziaria gli esperimenti del dottor Mengele subiti da bambina. E poi si è spinta a stringere la mano all'imputato, e a farsi immortalare mentre lo faceva. La donna ha pubblicato la foto su twitter scrivendo che il perdono è stato per lei "un atto di autoterapia e di autoliberazione". E particolare è stata, del resto, la stessa ammissione di responsabilità di Groening, che ha aperto il processo dichiarando: "non vi è alcun dubbio che io mi sia reso corresponsabile moralmente".
Il gesto di Eva Kor, però, ha sollevato molte polemiche, con dure reazioni da parte di altri sopravvissuti: "Non possiamo perdonare il concorso in omicidio dei nostri familiari e di altre 299 mila persone. Soprattutto sapendo che lui si ritiene non perseguibile sul piano penale. Vogliamo giustizia", è la reazione di uno di loro. Anche il comitato internazionale di Auschwitz è intervenuto a riguardo: "I sopravvissuti non si sentono nella situazione di poter perdonare il colpevole, soprattutto dopo il suo ostinato silenzio, durato decenni. Non sanno neppure come potrebbero concedere il loro perdono in nome dei parenti assassinati". L'impossibilità di perdonare è stata al centro anche di un'altra testimonianza oggi a Lueneburg, dove Eva Pusztai-Fahidi ha definito il processo a Oskar Groening una sorta di "risarcimento". La donna ha raccontato del suo arrivo al campo di concentramento all'età di 18 anni. Nell'Olocausto ha perso 49 parenti, fra cui i genitori e la sorella. E adesso, avere in aula davanti a un magistrato Groening è stato "meraviglioso", ha sostenuto, "come se ci fosse tutto il Terzo Reich nell'aula giudiziaria". "Noi sopravvissuti sediamo davanti a un giudice e lui deve difendersi", ha aggiunto la donna. "Stento a credere che sia reale. Io trovo questo processo un importante risarcimento. Per me il punto non è la pena ma il giudizio, la presa di posizione della società". "Non posso perdonare in nome dei morti, soltanto io ho perso 49 familiari", ha poi affermato, raccontando di essere stata per anni segnata dall'odio soprattutto nei confronti dei criminali nazisti e di non aver mai più detto una parola in tedesco. "Ma l'odio è un sentimento che desertifica l'anima, se si continua a odiare si resta vittime - ha concluso -. Per questo non voglio odiare, voglio essere una persona migliore".